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La Sanità al Sud riduce il gap - Tutta l’Italia soffre sul territorio

In un report con 177 indicatori misurate le performance ospedaliere delle Regioni nel 2019

di Barbara Gobbi

Una fotografia del Servizio sanitario nazionale scattata nel 2019: quindi, il punto sulle cure pubbliche subito prima dello tsunami Covid e una cartina di tornasole per spiegare le debolezze messe drammaticamente in evidenza dalla pandemia. Questo è il programma nazionale esiti (Pne), lo strumento di monitoraggio del Ssn sviluppato dall'Agenzia per i servizi sanitari regionali (Agenas) per conto del ministero della Salute. Che in vista della ristrutturazione dell'assistenza pubblica con le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza deve tener conto dello stato dell’arte prima del coronavirus. Al Covid la sanità italiana è arrivata sguarnita di risorse, di personale, di posti letto e di assistenza sul territorio. Dall’avvio del Pne nel 2012 i progressi in termini di appropriatezza e di riduzione della forbice Nord-Sud ci sono stati eccome, ma molti nodi restano e l'obiettivo è scioglierli con il pieno rilancio delle cure pubbliche. «I numeri ci dicono che siamo sulla traiettoria giusta ma ci servono più risorse e spese meglio – ha avvertito il ministro della Salute Roberto Speranza intervenuto alla presentazione del report -. L’urgente riforma del nostro Ssn può avvenire solo in una fase espansiva, necessaria per garantire a ogni cittadino le cure giuste in tutto il Paese. Ma per capire fino in fondo dove andare devi sapere esattamente dove sei e attivare un controllo costante, attento e puntuale di quello che ad oggi c'è. A questo serve la bussola Pne».

Il monitoraggio passa in rassegna sulla base dei dati delle Schede di dimissione ospedaliera 177 indicatori: 72 sugli esiti e i processi assistenziali, 75 sui volumi di attività e 30 sui tassi di ospedalizzazione in dieci aree cliniche: cardio e cerebrovascolare, digerente, muscolo-scheletrico, pediatrico, ostetrico e perinatale, respiratorio, oncologico, urogenitale e delle malattie infettive. La buona notizia è che la qualità nel suo complesso migliora: la quota di strutture che raggiungono livelli alti o molto alti per almeno la metà dell'attività valutata è passata dal 21% nel 2015 al 28% nel 2019, con il 79% dei centri che ha alti livelli di qualità in almeno un'area clinica. Per contro, in settori come la cardiologia, l'apparato muscolo-scheletrico, il sistema nervoso e la chirurgia non oncologica dell’apparato digerente, meno di una struttura su dieci presenta una qualità bassa o molto bassa.

La frammentazione è invece tra le prime storture da correggere, soprattutto in campo chirurgico: basti pensare che ancora nel 2019 circa un terzo delle operazioni per cancro al seno è stato fatto in unità operative con volumi di attività sotto la soglia delle 150 operazioni l’anno, mentre è provato che la quantità di interventi è direttamente correlata alla qualità dell'assistenza prestata. Dove minore è la casistica, più alto è il rischio di re intervento. Idem per il by-pass aortocoronarico: la contrazione del 12% rispetto al 2012 non si è accompagnata a una concentrazione dei volumi in un numero minore di strutture e così nel 2019 solo venti su 108 unità operative superavano la soglia nazionale dei 200 interventi l'anno.

Bisogna poi migliorare ancora sulla tempestività delle cure, per quanto anche su questo fronte si registri il dato positivo di un recupero del Meridione. Il caso-scuola è l'intervento chirurgico entro 48 dopo una frattura del collo del femore tra gli over 65: per quanto gli interventi tempestivi siano cresciuti dal 40% del 2012 al 67% del 2019, a tutt'oggi resta fuori oltre un terzo dei pazienti.

Il tarlo inappropriatezza continua invece a caratterizzare il ricorso al taglio cesareo: nel 2019 ci sono strutture dove si è superato il 60% di interventi, in barba alle indicazioni dell'Organizzazione mondiale della sanità nel lontano 1985 ha fissato l'asticella al 15% a garanzia di madre e neonato. E sempre imputabile a inappropriatezza è l'eccesso di ricoveri per complicanze di malattie croniche come il diabete per cui si registrano in alcune zone valori nettamente sopra la media regionale a causa di carenze e ritardi sul territorio. «Proprio le cure primarie sono la prossima frontiera cui guarda il Pne – ha spiegato il direttore generale di Agenas Domenico Mantoan durante la presentazione dei dati -. Una nazione che anni fa ha deciso di avere il più basso numero di posti letto d'Europa avrebbe dovuto dotarsi di un modello organizzativo territoriale. Ma non è stato mai fatto e il Covid ci ha presentato il conto». Quindi c'è un nuovo set di indicatori per il territorio tutto da costruire, insieme a un altro dei capisaldi del Recovery Plan: l’informatizzazione dei dati su cui le Regioni vanno ancora in ordine sparso. Portare a sistema il fascicolo sanitario elettronico è un’altra priorità su cui la pandemia ha acceso i riflettori: i dati devono dialogare e circolare in tempo reale se si vuol garantire qualità, tempestività e sicurezza delle cure.

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