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I Comuni-polvere tra poesia e necessità

Un poeta dei luoghi, Franco Arminio, paesologo in empatia con il mio raccontare microcosmi, dà voce ai sussurri dello spaesamento dei comuni polvere, dei piccoli comuni. Sussurri che diventano temi robusti per l’economia e la politica quando, definendole “aree interne”, si prende atto della faglia tra “terre alte e terre basse”, dalle Alpi agli Appennini, che fa da scheletro al Paese. Terre fragili. Se ne parla molto. Sia per il progetto aree interne di matrice politica come le legge sui piccoli comuni (Realacci) e ancor di più oggi che Covid-19 ha fatto volger lo sguardo del turismo verso l’Italia borghigiana.

I comuni polvere si ritrovano in una polvere di parole che fa storytelling che annebbia il racconto e anche la poesia resistente. Che fa dire a Pavese, ne “La luna e i falò”, resta sempre lassù il paese. Dove eravamo entrambi nei nostri piccoli comuni di residenza, lui in Irpinia ed io nelle montagne lombarde, durante il lockdown. Ci dicevamo «siamo dei privilegiati» rispetto ai tanti nei condomìni metropolitani: se alziamo lo sguardo vediamo prati e boschi; nella prossimità troviamo la bottega, non il supermercato; soprattutto troviamo traccia di ciò che resta della comunità.

Comunità tanto evocata nei giorni della pandemia. Parola dimenticata che rimanda più al paese che alla città e alla cittadinanza che anticipa la società. Parola che anticipa sussurri di condivisione. Quelli che ho sentito correre casa per casa nei giorni in cui anche i riti antichi della comunità, i funerali, erano in lockdown. Così come si erano fatti sussurri i rumori di quella economia informale – i codici della scienza triste la definiscono «sommersa» – che, dalla agricoltura all’edilizia e all’artigianato, tengono assieme economie minuscole di vite minuscole. Vite aggrappate come non mai a ciò che restava in paese della medicina di territorio. Con l’ospedale giù in città da evitare e il farmacista e il medico condotto riprendevano ruolo sociale e di cura.

Arminio mi ha fatto notare che, per uno che abitualmente criticava retoriche e storytelling delle aree interne, il mio racconto era una bella botta di nostalgia. Con il mio fare riferimento alla dimensione ecologica, alle tracce di comunità, alle economie informali, fatte di saperi antichi e contestuali e alla medicina di territorio, mai come oggi attuale, appare una retorica del margine. È questa la parola che va scomposta e ricomposta, anzi rovesciata e scagliata, nell’epoca in cui il margine si fa centro. Lo dico ad Arminio che ogni anno ci chiama ad Aliano tra i calanchi e la tomba di Carlo Levi interrogante sul perché Cristo si è fermato a Eboli. Ma se non ora quando prender cammino per andare noi a Eboli, Salerno, Napoli e perché no a Mondragone, nelle terre basse dei braccianti dove pare di nuovo essersi fermato Cristo e, per me montanaro, andar verso la città infinita lombarda? È tempo di rovesciare il paradigma dell’attesa dello sviluppo che arriva da fuori dal centro. Se non ora quando, visto che la crisi ecologica ha posto la questione della green economy e di un altro modello di sviluppo.

Il salto d’epoca nell’antropocene ha rovesciato il paradigma: il problema non è il vuoto, ma il pieno; non è il margine, ma il centro il problema. Non è solo questione che riguarda il paese e ciò che resta della comunità, ma rimanda alla città e alla società che viene avanti. Non è solo questione di paesologia o di urbanisti riconvertiti o di ministero per le aree interne. A maggior ragione nell’arcipelago fatto di miglia di piccoli comuni, di cento città e di aree metropolitane non ancora megalopoli che ci rimanda la geografia del nostro Paese. Partendo dal margine occorre mettersi in mezzo ai grandi interrogativi epocali che interrogano le forme di convivenza. Alzando lo sguardo, come ci invita a fare l’antropologa Tarpino, dalla sociologia delle macerie dei paesi abbandonati che sono una risorsa del vuoto. Ma anche guardando al pieno abbassando lo sguardo verso le terre basse delle città infinite dell’urbano regionale delle villette a schiera, fabbrichetta dopo fabbrichetta, capannone dopo capannone, perché non ci sarà smart city senza smart land. Pare se ne siano accorti anche laggiù, quelli dell’Economia, di essere «terre fragili» se sto all’ultimo libro di Antonio Calabrò titolato Oltre la fragilità. Che parte dalla parola da noi sempre evocata, «comunità», con tanto di riflessione sulla fragilità della «grande Milano» per arrivare a interrogarsi sull’umanesimo di impresa.

Immagino i poeti, i paesologi e i montanari diffidenti ad andare nelle terre basse. Marco Revelli, che ben conosce il mondo dei vinti, a proposito della metafora di Enea che prende sulle spalle Anchise per andare oltre la città che brucia, usata laicamente da Calabrò e me, citando Papa Francesco, mi ha fatto notare, rovesciandola, che occorre guardarsi dai tanti Enea che salgono sulle spalle di Anchise, pensando che tutto tornerà come prima. Proviamoci, anche perché sono convinto che nessuno si salva da solo.

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