Fisco e contabilità

La Pa paga in ritardo, per le banche 12 miliardi di crediti a rischio sofferenza

La definizione di default, unita alla Babele di leggi, rischia di trasformare in «deteriorati» i debiti Pa

di Morya Longo e Gianni Trovati

Bastano un po' di normative europee concomitanti come quelle sul default e sul «calendar provisioning», inserite in un intricato dedalo di regole, circolari e leggi nazionali, per trasformare potenzialmente il ritardo nei pagamenti da parte della Pubblica amministrazione (una delle storiche disfunzioni italiane) in una tempesta in un bicchiere d'acqua per il Paese. Per le banche. Per le imprese. E, addirittura, per il debito pubblico italiano. Secondo le stime di Assifact, il rischio è che tra i 7 e i 12 miliardi di crediti alla Pubblica amministrazione acquistati dalle società di factoring e dalle banche possano improvvisamente finire in default nei loro bilanci. Portando in un terreno minato l'intera esposizione che le banche hanno verso l'amministrazione pubblica: inclusa quella in BoT e BTp. Non perché lo Stato sia davvero insolvente, sia ben chiaro.

La Pa paga, in ritardo ma paga sempre. Ma per un cortocircuito normativo, che rischia di creare un paradosso proprio mentre - ironia della sorte - la macchina dei pagamenti pubblici stava iniziando a marciare meglio che in passato. E proprio mentre le banche si preparano ad affrontare una vera ondata di crediti deteriorati, causati dal Covid. Il problema non va dunque sottovalutato. Perché ancora oggi si può stimare in 25-30 miliardi l'arretrato di fatture della Pa non saldate nei tempi. E nei cassetti delle amministrazioni più lente, gli ultimi monitoraggi calcolano 3,7 miliardi di fatture per così dire storiche, che hanno visto scadere di almeno 12 mesi i termini di legge per la liquidazione. I numeri sono insomma grossi.

Ecco perché ministero dell'Economia e Bankitalia stanno lavorando a pieno ritmo per trovare con Bruxelles una soluzione normativa da infilare nella manovra, nel corso del suo esame parlamentare. La soluzione va mandata in Gazzetta Ufficiale entro fine anno, prima che la nuova normativa europea sui default entri in vigore. Altrimenti un cortocircuito figlio di una Babele normativa rischia di creare un effetto a valanga paradossale, in grado di rendere più difficile l'accesso al credito per le imprese che lavorano con la Pa, di riempire di crediti deteriorati "fittizi" le banche e di colpire addirittura la gestione dei titoli di Stato. Vediamo perché.

Il cortocircuito normativo
Tutto nasce dalla nuova definizione europea di default, che uniforma per tutte le banche del Continente questo concetto a partire dal 1° gennaio. La regola è semplice: passati 90 giorni dal mancato pagamento di un prestito con importo oltre una certa soglia (che diventano 180 se il debitore è la Pubblica amministrazione), una banca deve considerare quel credito scaduto. Cioè insolvente. E da quel momento parte la "clessidra" prevista da un'altra normativa europea: quella sul «calendar provisioning». La banca deve cioè svalutare quel prestito in bilancio, con date ben definite, fino a portarlo a zero in tre anni qualora sia senza garanzie. Considerando quanto lenta sia la Pubblica amministrazione a pagare (180 giorni sono irraggiungibili per molte realtà), è evidente che questo sia un problema: il rischio è che da gennaio venga considerato insolvente nei bilanci bancari un pezzo dello Stato italiano. Cioè una parte dei crediti verso la Pa che le banche acquistano tramite operazioni di factoring.

Questo rischio è sempre stato evitato grazie a un articolo della Circolare 272 della Banca d'Italia: questo prevede per le pubbliche amministrazioni che «il carattere continuativo dello scaduto si interrompa quando il debitore abbia effettuato un pagamento per almeno una delle posizioni che risultino essere scadute e/o sconfinanti». Parole in burocratese, ma Paolo Gesa, direttore commerciale di Officine CST, le traduce con chiarezza: «La Pa poteva avere arretrati per milioni di euro verso una banca, ma era sufficiente che pagasse una sola fattura, anche di importo esiguo, per poter riportare l'intera posizione in bonis». Peccato che - per una terza novità europea in arrivo dall'Eba - anche questo "giochino" dal 2021 non sarà più possibile. L'era delle scorciatoie è finita. E qui si inserisce l'ultimo problema, quello che rende questa storia ancora più paradossale: le normative europee prevedono che se una banca ha in stato di «scaduto» più dell'1% dell'esposizione verso un debitore, l'intera esposizione diventa insolvente. Anche se il debitore è lo Stato. Dato che le banche detengono tanti BoT e BTp, ma spesso anche crediti verso la pubblica amministrazione centrale comprati con operazioni di factoring da imprese, se i pagamenti scaduti della Pa vanno a superare l'1% dell'intera esposizione la banca è costretta a considerare tutto lo Stato insolvente. E dunque anche i titoli di Stato (i BoT e i BTp) arriverebbero a "consumare" capitale pari al 150%. Cosa non solo paradossale (lo Stato è considerato a rischio zero nelle normative europee), ma anche insostenibile per una banca.

Le soluzioni
Il problema è ovviamente risolvibile. Due sono le soluzioni tecniche suggerite dai tanti addetti ai lavori sentiti dal Sole 24 Ore. La prima è quella dei default tecnici: dato che lo Stato paga per forza e i suoi ritardi non sono dovuti a incapacità finanziaria ma semplicemente a lungaggini burocratiche, basta considerare i suoi mancati pagamenti come «scaduti tecnici» per disinnescare l'intero cortocircuito. In questo modo non avrebbero effetto sui bilanci bancari. L'altra soluzione è di far partire il conteggio dei 180 giorni non dalla data di emissione della fattura (come avviene per il settore privato), ma dal momento in cui lo Stato stanzia i fondi. Cioè dal cosiddetto «mandato di pagamento». In questo modo i 180 giorni non sarebbero praticamente mai raggiunti: le lungaggini derivano infatti dall'attesa del «mandato di pagamento», non dalla fase successiva. Il problema è che su questo punto la Banca d'Italia, in un documento del 15 ottobre, ha detto il contrario: cioè che il conteggio debba partire dalla data di emissione della fattura. Gettando nel panico l'intero settore del factoring.

La corsa ai ripari
Il problema, si diceva, è sui tavoli del ministero dell'Economia. Che in queste settimane si è già confrontato con il mondo del credito e del factoring (che ieri ha anche incontrato l'Eba) e ora deve costruire una soluzione muovendosi in equilibrio fra due esigenze. La prima è quella sostanziale: nessuno ovviamente ha interesse a far saltare su una mina regolatoria e contabile un filone del credito che è stato al centro anche delle normative Covid per tutelare la liquidità delle imprese. Ma per centrare il risultato, e qui c'è l'altro corno del problema, bisogna muoversi su un terreno delicato, che vede l'Italia già condannata per la storica ritrosia della sua Pa quando si tratta di saldare i conti. La vicenda si innesca quindi nel delicato confronto che Roma sta conducendo in Europa per evitare le sanzioni, e non permette quindi di scivolare su soluzioni non negoziate a Bruxelles o su aggiramenti delle regole troppo smaccati e quindi a rischio bocciatura. Anche se ovviamente la strada maestra per superare il problema resta quella di spianare la montagna dell'arretrato e di evitare che se ne formi una nuova.

L'ultimo tentativo, condotto in questi mesi mettendo a disposizione fino a 12 miliardi di anticipazioni di liquidità per Regioni, Asl ed enti locali, è naufragato perché gli enti hanno chiesto solo due miliardi in due tranche. Sfumata la leva degli incentivi, resta quella delle sanzioni, sotto forma di obblighi di accantonamento proporzionali ai mancati pagamenti. Perché limitare le possibilità di spesa corrente è sempre l'arma più convincente per cambiare i comportamenti delle Pa. Le norme sono già in Gazzetta Ufficiale, e fin qui sono state sempre congelate. Ma ora per il Mef il tempo delle proroghe sembra finito.

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