Il CommentoPersonale

La produttività «impossibile» della Pa

L'analisi dell’Osservatorio dei conti pubblici della Cattolica

di Gianni Trovati

Lo Smart Working esteso il più possibile e la spinta alla digitalizzazione di procedure e servizi sono l’effetto immediato più evidente dell’emergenza sanitaria sulla pubblica amministrazione. Ma nelle intenzioni del governo rappresenteranno anche la sua principale eredità per il futuro: perché il lavoro agile e i servizi digitali dovranno diventare strutturali, con tanto di norme che già lo prevedono. Nei prossimi giorni la Funzione pubblica pubblicherà le Linee guida per il «Pola», il Piano organizzativo del lavoro agile che oltre ad arricchire l’elenco degli acronimi burocratici dovrà guidare gli uffici pubblici nell’era dello Smart Working strutturale. Che dovrà riguardare, norme alla mano, almeno il 60% del personale impiegato in attività che non impongono la presenza fisica in ufficio, in corsia o sul territorio. Il tema ha acceso un dibattito ricchissimo di parole ma avaro di cifre sui risultati effettivi del lavoro nella Pubblica amministrazione. In pratica, la domanda è chiara: quanto è «produttiva» la Pa? Purtroppo è altrettanto chiara anche la risposta: non si sa.

A formularla è un’analisi che sarà pubblicata questa mattina dall’Osservatorio dei conti pubblici della Cattolica presieduto da Carlo Cottarelli. L’indagine, condotta da Giampaolo Galli e Francesco Tucci, parte dai numeri ufficiali, misurati dall’Istat sulla base dei criteri seguiti a livello internazionale. Numeri che offrono più di una sorpresa.

Tra 2010 e 2019, secondo l’Istituto di statistica, la produttività della Pa nei servizi generali è cresciuta del 5,9%, mentre nella sanità e nell’assistenza sociale è crollata del 13,2 per cento. L’immagine di un’amministrazione che in un decennio corre sulla strada dell’efficienza mentre la sanità peggiora a vista d’occhio (prima del Covid) stupisce. Ma la spiegazione è ovviamente nei parametri impiegati per arrivare a queste cifre. Parametri che, riducendo in una sintesi brutale un problema tecnico molto complesso, sembrano fotografare una realtà rovesciata, in cui fenomeni negativi assumono un significato positivo e viceversa.

Nei servizi generali viene impiegato prevalentemente il criterio dell’input, per cui il valore aggiunto è determinato per circa il 75% dal reddito degli addetti. In quest’ottica, più dipendenti pubblici significano più valore aggiunto. Fra 2010 e 2019 gli organici di queste Pubbliche amministrazioni si sono alleggeriti del 14,1%, mentre le altre componenti del valore aggiunto, cioè gli ammortamenti e le altre imposte sulla produzione, sono rimaste sostanzialmente invariate riducendone la flessione al 9,1%. Ecco perché la produttività si impenna del 5,9%. Il contrario succede in sanità, dove il criterio-guida per la determinazione del valore aggiunto è quello dell’output. Per cui fenomeni come il calo drastico delle dimissioni ospedaliere (-24% fra 2011 e 2018) determina una riduzione del valore misurato, mentre il personale è aumentato del 7,3%. Di qui la caduta del 13,2% nella produttività.

Ma la frenata delle dimissioni ospedaliere, registrata prima della pandemia per i miglioramenti delle cure e delle tecnologie che hanno ridotto i ricoveri, è un fatto positivo. Mentre un aumento dei dipendenti pubblici a parità di servizi erogati sarebbe un fenomeno negativo. Quel che è chiaro, quindi, è che misurare la produttività del settore pubblico in questo modo è un esercizio vano. E che un metodo ufficiale più efficace, al momento, è difficile da trovare.