Il CommentoPersonale

Riforma Brunetta e buste paga: 11 anni bastano solo a un rinvio

In Unificata salta l'intesa per applicare le regole in Regioni ed enti locali

di Gianni Trovati

Nulla di fatto. Nell’ultima conferenza Unificata l’accordo sulle regole per attuare negli enti territoriali la riforma Brunetta sembrava a un passo. Ma è saltato.

Niente panico: quello che state leggendo non è un vecchio articolo finito per chissà quale baco informatico nell’edizione di oggi del vostro giornale. È, più semplicemente, l’ultimo episodio nato dalla più grave fra le malattie italiane: la riformite ciarliera, che riempie di parole d’ordine e slogan il dibattito pubblico quando si tratta di ideare nuove regole, e dimentica tutto un minuto dopo che la legge è finita in Gazzetta Ufficiale. Evitando anche il rischio più remoto di un’eventuale attuazione.

Per capire di che cosa stavano discutendo all’ultima Conferenza i ministri e gli amministratori locali si sono dovuti produrre in uno sforzo di memoria titanico. E sono dovuti tornare con la mente a undici anni fa quando, il 27 ottobre del 2009, è stato approvato il decreto attuativo (si fa per dire) della riforma Brunetta. Complice l’attivismo dell’allora ministro della Funzione pubblica, amante delle polemiche che sa accendere con tecnica efficace, l’attenzione allora si concentrò sulla battaglia contro i «fannulloni», condotta a colpi di tornelli elettronici e licenziamenti facilitati.

Ma nelle 22.405 parole che compongono i 74 articoli del decreto legislativo 150 del 2009 intitolato alla «ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico» e alla «efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni» c’era molto di più. C’era, soprattutto, la definizione di un set di obiettivi e indicatori per misurare la «performance» individuale e di gruppo di ogni ufficio pubblico. Questi termometri del lavoro pubblico avrebbero dovuto chiudere l’epoca dei premi in busta paga per tutti, e gonfiare gli stipendi dei meritevoli alleggerendo quella dei posapiano.

Quell’ondata di darwinismo retributivo era sicuramente discutibile. E infatti è stata discussa allo sfinimento. Ma senza che i cedolini recassero traccia concreta di tanto dibattito. Per non violare l’autonomia di Regioni ed enti locali, «equiordinati» allo Stato dal Titolo V della Costituzione, la presunta rivoluzione doveva essere disciplinata da un’intesa con gli amministratori. Ma l’intesa, tentata giovedì, non è arrivata.

Ma undici anni di lavoro, un paio in più rispetto a quelli che separano la pubblicazione del primo dei sette volumi della Recherche dalla morte del suo autore Marcel Proust, non sono passati invano.

Perché le quattro paginette della bozza di intesa stupiscono per la densità dei loro contenuti. Regioni ed enti locali, si legge per esempio all’articolo 2, «adottano la classificazione degli obiettivi nell’ambito della autonoma regolamentazione». Non subito, per carità. «Nelle more - ci mancherebbe - definiscono i propri obiettivi sulla base delle priorità individuate dall’organo di indirizzo politico-amministrativo e li programmano, sentiti i vertici dell’amministrazione che a loro volta consultano i dirigenti e i responsabili delle unità organizzative». L’articolo 3 aggiunge che «ciascuna amministrazione definisce autonomamente oggetto, limiti e modalità di esecuzione del monitoraggio» delle performance. E sempre «autonomamente» (articolo 5) «definiscono struttura e contenuti del documento di programmazione e di quello di rendicontazione dei risultati». «Nell’ambito della propria autonomia», poi (articolo 7), «decidono se istituire un Organismo indipendente di valutazione». Una prosa da manuale, che mette in bella copia una serie di ovvietà stando attentissima a evitare qualsiasi vincolo. Tranne uno: il divieto di assunzioni dove manca il piano delle performance. E su quel vincolo l’intesa è sfumata.