Fisco e contabilità

«Sugli sconti fiscali può funzionare solo un taglio generale»

Mauro Marè (presidente Commissione spese fiscali): possibile avere almeno 10 miliardi per riformare il Fisco

di Gianni Trovati

«La riforma fiscale non è più rinviabile, e deve poggiare su un finanziamento serio e strutturale. Le spese fiscali sono una strada giusta, possono senza troppa fatica portare una copertura almeno nell'ordine di 10 miliardi. Ma serve un intervento generale: avventurarsi in un'analisi voce per voce ha un altissimo costo politico e porta a risultati modesti in termini di risorse». Le tax expenditures, le centinaia di sconti grandi e piccoli che il fisco riserva a redditi e spese, sono da 10 anni al centro dell'agenda della politica economica: ogni governo ha sognato di ricavare da lì i fondi per tagliare le tasse, e ogni governo ha finito invece per aumentare il numero di detrazioni e deduzioni settoriali. Mauro Marè, ordinario di Scienza delle finanze alla Luiss, è la persona giusta con cui affrontare il problema: presiede la commissione che ogni anno stila il Rapporto sulle spese fiscali, che viene allegato alla Nadef e dovrebbe appunto rappresentare una delle basi della grande riforma.

Professore, il ministro dell'Economia Gualtieri ha appena rilanciato l'idea di una riforma fiscale che si autofinanzi con la «debonusizzazione». È una strada percorribile? Quanti soldi si possono ricavare dalle tax expenditures?
Sicuramente. Anche perché una riforma fiscale non può limitarsi alle aliquote ma deve occuparsi anche della base imponibile e, appunto, delle agevolazioni. L'ultima edizione del Rapporto elenca 533 voci per un costo annuo intorno ai 63 miliardi. Ma non comprende le spese fiscali strutturali, come le detrazioni per carichi famigliari o per lavoro dipendente: in tutto si arriva quindi a oltre 700 spese per un costo superiore ai 100 miliardi all'anno. Naturalmente non è possibile cancellarle tutte: ma le stime mostrano che non è troppo difficile raccogliere da qui almeno 10 miliardi. Per arrivare a 20-30 miliardi, cioè al costo di una riforma fiscale incisiva, bisogna intervenire anche sulle voci strutturali.

Perché però nessuno ci è riuscito finora?
Il problema nasce dalla natura di questi interventi. Rispetto agli altri Paesi Ocse l'Italia ha molte più spese fiscali, ma tolti pochi grandi capitoli il loro valore medio è molto basso. Perché spesso si è usata la leva fiscale per comprare consenso o fare politica industriale, e questo spiega come mai negli ultimi anni c'è stato un aumento così vorticoso.

Come se ne esce?
Serve un intervento generale, al limite anche orizzontale: per esempio ridurre del 50% quelle che costano meno di 100 milioni, oppure tagliarle tutte del 2%, o introdurre tetti di reddito oltre i quali lo sconto non scatta. Anche perché non va dimenticato che molte agevolazioni sono regressive, finanziando spese realizzate solo dalle famiglie con redditi medio-alti.

Alcuni sconti sono però più "giustificati" di altri.
Ma eliminare singole agevolazioni è molto complicato, perché solleva l'opposizione dei gruppi di interesse colpiti, spesso piccoli ma combattivi, e non porta nemmeno grandi coperture. Il problema è l'asimmetria fra una riforma fiscale, che ha effetti generali, e il taglio alle spese fiscali, che scatena proteste settoriali.

Ma è tecnicamente possibile un equilibrio in grado di cancellare il rischio che qualcuno paghi più di prima per la combinazione di riforma e taglio alle tax expenditures?
È molto difficile, anche perché il cambio di aliquota incide sulla progressività mentre molti sconti sono slegati dal reddito, e spesso sono accompagnati da franchigie che complicano ulteriormente il quadro. Serve una clausola di salvaguardia per la transizione, che comporta costi in più.

Si discute molto anche dei «sussidi ambientalmente dannosi». Possono coprire la riforma?
Questi sussidi vanno sicuramente ripensati, ma in termini di politica ambientale più che fiscale.

E la lotta all'evasione?
Certamente. Ma sapendo che prima va realizzata, poi va incassato il gettito e solo dopo messo a copertura. Un dato è certo: una riforma non si può finanziare in deficit, nemmeno ipotizzando effetti di crescita, e quindi di aumento del gettito, dalla diminuzione della pressione fiscale. Perché prima questo gettito va realizzato, e poi può essere impiegato a copertura.

Tra le ipotesi di riforma prende piede il «modello tedesco», con l'aliquota progressiva che cambia in funzione del reddito. Che ne pensa?
Personalmente non penso che sia una buona opzione perché rende il sistema più complicato e meno intuitivo. Indubbiamente potrebbe avere dei pregi in termini di progressività. Ma questo è il momento di momento di ridurre il numero di aliquote ma anche di semplificare il sistema tributario, e non di chiedere ai contribuenti di farsi calcolare le tasse con una funzione quadratica che scatenerebbe critiche e polemiche facili da immaginare in questa fase storica nel nostro Paese. Del resto i salti di aliquota reale che viziano il nostro sistema sono spesso prodotti da detrazioni e deduzioni che viaggiano slegate dalle aliquote nominali. E il problema si può affrontare per quella via.

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