Il CommentoAmministratori

Partecipate, nel Pnrr una occasione per il modello benefit

di Luciano Cimbolini

La dimensione delle partecipazioni pubbliche detenute da amministrazione centrali o locali è imponente. Nel 2018, secondo l'Istat, le unità economiche partecipate dal settore pubblico nelle diverse forme (società di capitali, associazioni, fondazioni, fondazioni di partecipazione, consorzi di diritto pubblico) erano 8.510 e impiegavano 924.068 addetti. La quota di controllate pubbliche era del 53,2%. Delle 8.510 unità economiche a partecipazione pubblica, 6.085 erano imprese attive operanti nel settore dell'industria e dei servizi rappresentavano il 96% degli addetti delle unità partecipate. Complessivamente, al netto delle attività finanziarie e assicurative, le imprese a controllo pubblico generavano oltre 56 miliardi di valore aggiunto.

Molte di questi soggetti operano secondo lo schema dell'affidamento diretto in house.

Se guardiamo il profilo dimensionale, le società più grandi operano come concessionarie di servizi pubblici di interesse generale. Servizi che, oltre avere un grande spessore economico, sono gestiti in base a un piano economico finanziario (con annesso contratto di servizio) di lungo periodo che dovrebbe regolare tutta la vita della società in termini di costi, ricavi, investimenti e remunerazione del capitale e che di frequente rappresenta, allo stesso tempo, sia il presupposto dell'affidamento del servizio stesso, sia il criterio di determinazione della tariffa mediante il ribaltamento sulla stessa dei costi ammissibili.

Molti di questi servizi (acqua, gas, trasporti, rifiuti eccetera) sono direttamente o indirettamente correlati a diritti costituzionalmente garantiti e sono sottoposti al controllo di autorità di settore.

In relazione agli obiettivi nazionali di transizione ecologica, come definiti dal Pnrr, appare evidente la strategicità del settore delle partecipate pubbliche. E questo accade per un dato di fatto derivante dalla conformazione storica del nostro sistema economico, a prescindere dal giudizio che si possa avere circa la presenza della «mano pubblica» in economia.

In Italia, l'articolo 1, commi 376-382 della legge 208/15 (legge di stabilità 2016) ha introdotto le «società benefit», cioè aziende for profit che vogliano andare oltre l'obiettivo del profitto e massimizzare il loro impatto positivo verso ambiente e società. In generale, le società benefit differiscono dalle aziende tradizionali riguardo a obiettivi statutari, responsabilità e trasparenza, avendo come fine il benessere della comunità in cui operano e l'impatto positivo su persone e ambiente. Queste imprese, dunque, mirano, nella loro attività economica, oltre che all'utile, anche aduna o più finalità di beneficio comune grazie a una gestione responsabile e sostenibile. Il beneficio comune deve consistere nel perseguimento di uno o più effetti positivi nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse (lavoratori, clienti, fornitori, finanziatori, creditori, pubblica amministrazione e società civile). Il beneficio comune dovrà essere indicato nell'oggetto sociale e perseguito e realizzato con un bilanciamento tra l'interesse dei soci e quello dei destinatari dell'attività sociale (stakeholders). Il management, con una relazione annuale, dovrà dar conto dei risultati prodotti sull'ambiente interno ed esterno.

Nell'ordinamento giuridico italiano le società benefit, dunque, si collocano a metà strada tra i due modelli "puri" del profit e non profit. L'approccio dell'impresa for benefit è quello di coniugare tensione al profitto e obiettivi di benessere sociale, ossia, arrivare a una sintesi tra i due paradigmi che, sotto il vincolo del beneficio comune, persegua un rendimento dell'investimento declinabile in termini di equilibrio tra il capitale economico e quello sociale e naturale.

Secondo i dati di Laboratori Ref Ricerche, oggi in Italia, le società benefit sono 926, delle quali più del 50% operano nel settore dei servizi alle imprese, poi, a scendere, nella manifattura, nel commercio, nelle costruzioni, nel turismo, nelle assicurazioni nel credito, nell'agricoltura e nei trasporti.

L'assonanza del modo di fare impresa "benefit" con gli obiettivi della transizione ecologica (missione 2 del Pnrr) appare evidente, com'è chiaro che diventare "benefit" potrebbe essere un'occasione per tante società pubbliche di migliorare i loro standard di servizio e così contribuire in modo più efficace al raggiungimento degli obiettivi del Pnrr.

In realtà, spesso, molte società sono già "benefit" nel loro attuale modo di operare e il passaggio a questa nuova forma societaria non sarebbe altro che evidenziare politiche aziendali e modalità gestionali già in essere.

Il passaggio a società benefit, inoltre, potrebbe agevolare anche il ruolo delle amministrazioni nella loro, spesso farraginosa e debole, funzione di controllo, perché una diversa governance for benefit dovrebbe indurre una maggior attenzione all'interno delle stesse società circa il rispetto dei contratti di servizio e degli standard qualitativi e ambientali nell'attività di erogazione del servizio stesso. Una riflessione sul passaggio da società di capitale a scopo di "solo" lucro a società benefit, infine, va di pari passo con una ineludibile domanda riguardo agli scopi sostanziali che deve prefiggersi una società pubblica che svolga, in concessione, un servizio d'interesse generale collegato a un diritto costituzionalmente garantito. La domanda è se questi operatori debbano tendere alla sola massimizzazione del profitto, cui spesso si accompagna una politica dei dividendi tutta protesa al favore nei confronti degli azionisti oppure se questi debbano, in un contesto di equilibrio economico (e, si noti bene, non di perdita di valore e di depauperamento del capitale pubblico investito) garantire, secondo uno standard di elevata qualità, i servizi a essi assegnati con il contratto di affidamento.