Personale

Abuso d'ufficio, «no» al dissequestro di beni per il dipendente comunale che vuole restituirli per avere lo sconto di pena

La misura non può essere revocata per consentire all'imputato che ha fatto richiesta di patteggiamento

di Andrea Alberto Moramarco

In caso di corruzione commessa dal dipendente comunale e successiva richiesta di patteggiamento da parte di quest'ultimo, il sequestro finalizzato alla confisca del profitto del reato (articolo 322-ter del codice penale), non può essere revocato per consentire all'imputato (articolo 444, comma 1-ter, del codice di procedura penale) la restituzione integrale della somma alla parte lesa e beneficiare così dello sconto di pena. Il sequestro finalizzato alla confisca è finalizzato, infatti, a devolvere il denaro allo Stato e non all'amministrazione di appartenenza della parte lesa. Questo è quanto emerge dalla sentenza n. 37084 della Cassazione, depositata ieri.

Il caso
La vicenda oggetto delle decisione prende le mosse dal sequestro preventivo di denaro, disposto nei confronti di un dipendente comunale addetto al servizio di manutenzione accusato di una serie di episodi di corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio. Il Gip prima e il Tribunale poi revocavano il provvedimento, a condizione però che tali somme venissero destinate alla restituzione del profitto del reato, come previsto dall'articolo 444 del codice di rito per poter beneficiare del patteggiamento. La Procura contestava però tale scelta, in quanto la misura originariamente disposta era finalizzata alla confisca per equivalente (articolo 322-ter del codice penale), il cui destinatario finale era l'amministrazione finanziaria dello Stato, mentre così deliberando le somme oggetto di sequestro sarebbero finite nelle casse del Comune, quale parte lesa del reato posto in essere dal dipendente.

La decisione
La Cassazione, chiamata a decidere sulla questione, cerca di fare chiarezza su quella che definisce una «distorsione esegetica» commessa dai giudici di merito. Ebbene, nella fattispecie il sequestro del denaro è stato disposto al fine dell'eventuale confisca del profitto del reato di corruzione. Si trattava, cioè, di denaro destinato a confluire (articolo 322-ter del codice penale), nelle casse dello Stato. Il presupposto su cui si sono basati i giudici per revocare il sequestro è, invece, relativo alla disposizione dell'articolo 444 del codice di procedura penale, inserita dalla legge Spazzacorrotti (legge 3/2019), che subordina l'applicazione ridotta della pena all'integrale restituzione del prezzo o profitto del reato. In tale ultimo caso, però, il destinatario della somma è la parte lesa, che nella fattispecie è il Comune. Di conseguenza, i giudici di merito hanno errato nel procedere al dissequestro, posto che l'esigenza di soddisfare una pretesa restitutoria o risarcitoria del vantata dal comune è circostanza del tutto estranea alle ragioni per cui la misura cautelare era stata applicata, ovvero quello di consentire allo Stato di incamerare il profitto del reato.
A ogni modo, sottolinea la Suprema corte con una interessante precisazione, la restituzione ex articolo 444 del codice di procedura penale non si può sommare a quella di cui all'articolo 322-ter del codice penale, configurandosi in tal caso un ne bis in idem sanzionatorio vietato, «trattandosi di misure aventi il medesimo oggetto ed analoga finalità afflittiva».

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