Urbanistica

Abusi, il Comune è tenuto a consentire la sanatoria ai nuovi proprietari incolpevoli

È la conclusione cui è giunto il Tar Lazio in una vicenda conclusa da un giudizio di ottemperanza

di Ivana Consolo

Nella frequente contrapposizione tra interessi della Pa e diritti o interessi dei privati cittadini, non è raro questi ultimi decidano di avvalersi del giudizio di ottemperanza. Ogni volta che la Pa appare inadempiente agli obblighi ad essa imposti da un precedente provvedimento giudiziario divenuto inappellabile, il cittadino ha la possibilità di spiegare un apposito ricorso al Tar, chiedendo per l'appunto l'ottemperanza dell'amministrazione. Grazie a tale strumento giudiziario, si assiste al "trionfo" del privato sul pubblico; difatti, l'autorità giudiziaria "costringe" l'amministrazione a dare corretto e piena soddisfazione a quegli interessi già risultati meritevoli di tutela in un precedente e definitivo giudizio.
È esattamente ciò che è accaduto nella vicenda che andremo ad esaminare, ove con sentenza numero 12768, emessa in data 7 ottobre 2022, il Tar Lazio impone ad un Comune di tenere precise e determinate condotte in favore dei privati proprietari di un edificio.

Il caso
A fare da sfondo alla pronunzia in esame, vi è la contrapposizione tra il Comune di Pomezia e i proprietari di un fabbricato sito nel territorio comunale. Vi è subito da dire che i privati avevano acquistato l'immobile da una precedente proprietaria, che era l'effettiva responsabile dell'abuso per cui è causa. Ma cosa era accaduto esattamente? Ebbene, si era verificata la decadenza automatica del titolo edilizio in forza del quale l'immobile era stato edificato, il tutto in ragione delle dimissioni del direttore dei lavori, figura professionale alla cui sostituzione l'allora proprietaria del fabbricato non aveva mai provveduto. Il Comune di Pomezia, a fronte di tale decadenza, si determinava ad adottare un'ordinanza con cui intimava la demolizione integrale dello stabile, e il ripristino dello stato dei luoghi.

Investito della vicenda, il Tar si poneva il seguente interrogativo: dalla semplice constatazione dell'intervenuta decadenza del titolo abilitativo, il Comune poteva far derivare quale unica, immediata, necessaria conseguenza, la qualificazione giuridica dell'attività costruttiva effettuata in corso di validità di tale titolo, come illecito edilizio? Il Tribunale giungeva alla conclusione che l'ordinanza di demolizione fosse eccessiva, in quanto adottata in violazione del principio di proporzionalità. L'amministrazione aveva ingiunto la demolizione dell'intero edificio, senza considerare che almeno una parte di esso poteva risultare legittima, in quanto edificata in forza di un titolo ancora valido ed efficace alla data delle dimissioni del direttore dei lavori. Ma vi è di più .Il Tar si poneva anche il problema della posizione giuridica dei nuovi proprietari, acquirenti in buona fede, ignari dell'abuso commesso dalla loro dante causa, che non erano stati neppure preavvertiti della possibilità di chiedere (limitatamente alla porzione abusiva) la sanatoria ordinaria, oppure il condono edilizio.

La decisione del Tar
Nella convinzione che vi fosse un'evidente sproporzione tra precedente condotta abusiva e successiva sanzione, il Tar Lazio disponeva l'obbligo, in capo al Comune, di avviare, nel contraddittorio con i privati interessati, un nuovo iter procedimentale teso al recupero della legittimità edilizia della porzione di fabbricato da considerarsi abusiva. Il fine da dover perseguire, era quello di ovviare alla soluzione della demolizione, giudicata eccessivamente drastica in rapporto alle peculiarità del caso concreto.Per dare corretta attuazione alla sentenza, il Comune avrebbe dovuto in primo luogo, accertare quale fosse la porzione del fabbricato edificata prima dell'intervenuta decadenza automatica del titolo, e quale invece la parte edificata in data successiva, l'unica a poter essere ritenuta realmente abusiva. In secondo luogo, con riferimento alla sola porzione abusiva, l'ente avrebbe dovuto verificare la percorribilità di soluzioni alternative alla demolizione, il tutto insieme agli attuali proprietari. La valorizzazione della partecipazione dei proprietari al procedimento in parola, si basa sul fatto che costoro non avevano colpa alcuna nell'abuso; come si è detto, si erano trovati ad acquistare "sulla fiducia" un immobile di cui, a distanza di decenni dal rilascio della relativa concessione edilizia, veniva disposta l'integrale demolizione.In considerazione di ciò, gli attuali proprietari erano dunque stati espressamente autorizzati dal Tar a presentare una richiesta di sanatoria, potendo optare per quella ordinaria, oppure per una delle sanatorie straordinarie (i cosiddetti condoni) varate nel corso degli anni dal legislatore nazionale con riguardo ai veri e propri abusi sostanziali. Veniva altresì contemplata l'ulteriore possibilità di ricondurre l'immobile a conformità mediante l'esecuzione di lavori a tal fine necessari. Essendo stati autorizzati alle suddette alternative attività, i proprietari venivano altresì automaticamente rimessi in termini per la presentazione delle relative istanze.

L'inerzia del Comune
Nonostante la chiara portata del provvedimento giudiziario, il Comune non aveva mai riaperto l'iter procedimentale atto ad appurare quale fosse la porzione del fabbricato da considerarsi abusiva. A fronte di questa perdurante inerzia amministrativa, i proprietari decidevano di attivarsi autonomamente, presentando un'istanza di definizione degli illeciti edilizi (un condono). Ma l'istanza di condono rimaneva anch'essa priva di riscontro, nonostante il successivo sollecito inoltrato al Comune. L'ente si era semplicemente limitato ad emettere una nota in cui evidenziava che le irregolarità non potevano essere sanate ai sensi delle leggi speciali dei condoni edilizi, poiché i termini erano scaduti, e non potevano essere riaperti in mancanza di qualsiasi previsione normativa in tal senso.A fronte di tanta ostinata inadempienza, i privati decidevano di agire in ottemperanza, e si rivolgevano nuovamente al Tar Lazio

Il giudizio di ottemperanza
Ad avviso del Tribunale, la condotta del Comune costituisce una chiara violazione del giudicato, avendo la sentenza esplicitamente rimesso in termini gli interessati proprio per l'eventuale presentazione di una domanda di condono edilizio. Ne consegue che, l'unica attività posta in essere dal Comune, ovvero l'adozione della nota precedentemente menzionata, rappresenta un'attività nulla, poiché in evidente violazione di un giudicato.Nel suo provvedimento, il Tar Lazio argomenta la necessità di una declaratoria di nullità, e si richiama a costante orientamento del Consiglio di Stato, secondo cui: «il giudice dell'ottemperanza, è il giudice naturale della conformazione dell'attività amministrativa successiva al giudicato, nonché delle obbligazioni che da quel giudicato discendono, o che in esso trovano il proprio presupposto. Il giudizio di ottemperanza è dunque la sede processuale naturale per svolgere uno scrutinio completo circa l'esatta conformazione dell'amministrazione agli obblighi nascenti dal giudicato. Ne deriva chiaramente la piena possibilità di esame, e l'eventuale declaratoria di nullità degli atti emanati in violazione o in elusione del giudicato». Alla luce delle argomentazioni svolte, il ricorso presentato dai privati avverso l'inerzia amministrativa è meritevole di accoglimento. Il Tar Lazio stabilisce che l'amministrazione non ha dato alcuna esecuzione al giudicato di cui si chiede l'ottemperanza, ma ha solo adottato un atto che ne costituisce aperta violazione. Il Comune viene dunque condannato a dare seguito formale all'istanza di condono presentata dai ricorrenti (nel termine di 60 giorni dalla notifica del provvedimento), dando la giusta valorizzazione alla loro partecipazione nel procedimento amministrativo che ne seguirà.

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