Fisco e contabilità

La Corte Ue: va recuperata l’Ici non pagata da Chiesa e no profit. Ma non si sa come

L’Ici abbuonata fino al 2011 agli enti non profit va recuperata. O almeno bisogna provare davvero a farlo. Perché i buchi organizzativi di una Pa non sono una ragione sufficiente per rinunciare a priori a rimediare a un aiuto di Stato.

La decisione

Si chiude così, con la sentenza della Corte di giustizia Ue sulle cause riunite C-622/16 e C-624/16, la lunga battaglia legale portata avanti da una scuola privata, la Maria Montessori di Roma. Una battaglia in cui la piccola scuola elementare ha dovuto lottare contro lo Stato italiano, la commissione europea e il tribunale Ue. Vincendo. In gioco c’è un gettito che le stime collocano fra i 4 e i 5 miliardi all’anno, e che andrebbe moltiplicato per i cinque anni che dividono il 2007, data di entrata in vigore dell’esenzione generalizzata, dal 2012, quando sono cambiate le regole. Ma prima di avventurarsi in calcoli bisogna chiarire che la storia continua. Perché sarà ora la commissione a dover valutare con Roma le strade possibili per recuperare almeno in parte l’imposta andata persa per via dell’esenzione illegittima. Una volta individuato il meccanismo, l’Italia dovrà applicarlo se non vorrà andare incontro a una procedura d’infrazione. L’esito finale, insomma, è ancora tutto da definire. E questo spiega anche lo scarso entusiasmo dei sindaci, che sarebbero i destinatari di questa fortuna. «La sentenza non consente direttamente ai comuni di recuperare i soldi per l’Ici non versata - chiarisce Guido Castelli, sindaco di Ascoli e presidente dell’Ifel -; piuttosto sanziona l’Italia per aiuti di Stato».

L’esenzione generalizzata

La vicenda è complicata, ma il nocciolo è chiaro. Fino al 2011 l’ordinamento italiano ha garantito un’esenzione di fatto generalizzata dall’Ici agli immobili degli enti no profit, anche se utilizzati per scuole, alberghi e altre attività commerciali. Tanta generosità non è piaciuta a chi svolgeva le stesse attività pagando anche le imposte sul mattone, e alla commissione Ue che l’ha giudicata distorsiva della concorrenza. La normativa italiana è stata corretta dal governo Monti, che per superare le obiezioni Ue ha messo in piedi un complesso sistema per individuare le superfici “paganti”. In pratica, dal 2012 la presenza di una parte d’immobile dedicata ad attività «non commerciali», per esempio una cappella all’interno di un’edificio occupato da una scuola o da un albergo di proprietà della Chiesa, non basta più a esentare tutto il resto. E per capire se l’attività esercitata è svolta «con modalità commerciali» bisogna confrontare le tariffe con quelle medie del territorio di riferimento. Se il costo della stanza supera la media, o la retta scolastica è più casa del «costo per studente» calcolato dal Miur, l’attività è «commerciale» e l’Imu si paga.

Il cambio di rotta

La mossa, scritta all’articolo 91-bis del Dl 1/2012, ha più o meno risolto la questione per gli anni dal 2012, seppure con il corredo infinito di problemi interpretativi che ha comportato. Ma per quel che riguarda il passato l’Italia ha subito chiarito alla commissione europea l’impossibilità di applicare in modo retroattivo questo meccanismo non proprio semplice, e basato sulle autodichiarazioni dei proprietari che indicano nei modelli le parti di immobili destinati alle attività commerciali. La risposta ha accontentato la commissione. Ma non i proprietari della Montessori e Pietro Ferracci, titolare di un bed & breakfast che ha affiancato la scuola in questa partita di carte bollate. Nell’aprile del 2013 si sono rivolti al Tribunale Ue, e lì tre anni dopo avevano ottenuto quella che nei fatti si è rivelata una prima vittoria. Nel settembre 2016, infatti, il Tribunale ha respinto i ricorsi, ma per la prima volta ha dichiarato appellabili le decisioni della commissione in base all’articolo 263, comma 4 del Trattato sul funzionamento della Ue. Si è aperta così la strada all’intervento della Corte di giustizia, che nella sentenza di ieri ha accolto le tesi dell’Avvocato generale (si veda Il Sole 24 Ore del 12 aprile 2018) imponendo alla commissione di riaprire il caso.

Le prossime mosse

Per archiviare l’aiuto di Stato, spiega la sentenza, non basta che la commissione prenda atto dell’impossibilità di recuperarlo dichiarata dallo Stato. Perché l’esecutivo comunitario deve accertare con un «esame minuzioso» anche l’inesistenza di «modalità alternative» per provare a incassare almeno in parte i soldi andati persi. È quello che dovrà fare ora la Dg Competition guidata dalla commissaria Margrethe Vestager, confrontandosi con il ministero delle Finanze. Poi toccherà al Mef rivolgersi ai Comuni per applicare il meccanismo che sarà individuato e calcolare quindi le somme da recuperare. L’esito, insomma, non si annuncia né immediato né scontato.

La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea

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