Personale

Assenteismo, il danno all'immagine non è automatico

La sentenza della Corte dei conti pare poter essere letta come un alleggerimento per il dipendente pubblico

di Pasquale Monea e Oriana Avallone

In attesa che altre questioni siano affrontate compiutamente (si pensi alle tematiche del rimborso delle spese legali nella responsabilità amministrativo contabile dopo la decisione della Corte costituzionale 189/2020) la sentenza n. 361/2021 della Corte dei conti Emilia Romagna pare poter essere letta come un alleggerimento per il dipendente pubblico: non ogni reato commesso dal dipendente danneggia l'immagine dell'ente pubblico.

La sentenza della sezione Emiliana Romagna, infatti, pone un limite alla diffusa tendenza di "oggettivizzare" la responsabilità per danno all'immagine a carico del dipendente o dell'amministratore che abbia commesso un reato contro l'amministrazione di appartenenza.

Nel caso di specie il dipendente ha "patteggiato" per avere presentato un certificato medico successivamente risultato falso. La Corte dei conti ha condannato il dipendente a restituire soltanto quanto percepito nel periodo di falsa assenza per malattia, escludendo la sussistenza dei presupposti per l'ulteriore richiesta, della Procura erariale, di condanna del dipendente al risarcimento per danno all'immagine dell'amministrazione, pur ricorrendo, da un lato, la sussistenza di un reato in danno della Pa (da ultimo, Sezione Giurisdizionale Abbruzzo, sentenza n. 85/2021) e, dall'altro, una sentenza ai sensi del 444 del codice di proecedura civile, oramai pacificamente assimilato all'ipotesi di sentenza di condanna, emanata a seguito di dibattimento.

Per la Corte dei conti, nel rispetto dei principi generali sull'onere della prova, fermi i presupposti della responsabilità penale nei termini indicati, anche il danno subito all'immagine della Pa va sempre essere provato nella sua effettiva sussistenza.

Pur riconoscendo che il clamor – elemento costitutivo del danno all'immagine - possa essere rappresentato anche dalla divulgazione del fatto all'interno (e non all'esterno) della Pa, nella sentenza si afferma la necessità di tener conto di come l'equivalenza degli interessi in gioco nel processo contabile (difesa del convenuto e garanzia all'integrità dell'Erario) si ripercuota sulla regole eziologiche del giudizio contabile, che - al contrario di quello penale - non è basato sulla «prova oltre il ragionevole dubbio», ma sulla «preponderanza dell'evidenza» o del «più probabile che non», con la conseguenza che – seppur "sfumata" la differenza tra elemento di prova, indizio di prova e prova – quest'ultima non può, comunque, considerarsi in re ipsa, non potendo la parte requirente, ritenersi esonerata dal fornire la prova, seppure indiziaria, di un clamor che abbia quantomeno integrato il livello minimo di lesività, quale base per condannare al risarcimento contabile. La Corte ha giustamente affermato che - pur non essendo necessaria la dimostrazione della spesa sostenuta per il ripristino dell'immagine violata, né la verificazione di una deminutio patrimonii della Pa danneggiata (Sez. Giur. Lombardia, sentenza n. 165/2021) – ciononostante, in assenza di prova, sin anche indiziaria, tale da consentire di affermare, secondo la regola del «più probabile che non», che la divulgazione del fatto (quantomeno all'interno dell'Amministrazione) abbia superato una soglia minima di lesività, non v'è spazio per il risarcimento della lesione dell'immagine della Pa, cagionato dal comportamento del dipendente infedele. Opinando diversamente, afferma la Corte dei conti romagnola con stringente logica giuridica, il danno all'immagine, finirebbe con il costituire una «nuova fattispecie di sanzione accessoria», inammissibile perché non sostenuta dalle guarentigie dell'ordinamento contabile, comminata dal Giudice dei conti al solo ricorrere della commissione di un reato in danno della Pa, ancorché accertato dal Giudice penale con sentenza passata in giudicato.

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