Amministratori

Tasse e multe, tra Roma e Napoli 10 miliardi di arretrati

Sono 1.300 i Comuni, soprattutto a Sud, in cui i mancati incassi mettono a rischio la tenuta dei bilanci

di Marco Mobili e Gianni Trovati

In media ogni residente a Roma, neonati compresi, deve al proprio Comune 2.859 euro. Va peggio a Napoli, dove il debito pro capite sale a 2.967 euro, mentre si attesta intorno ai 1.600-1.700 euro a Milano e Palermo per scendere a 1.156 euro a Torino.L'Italia che non paga le tasse, i tributi, le multe, le rette di asili nido e trasporto scolastico, non gonfia solo il mitologico «magazzino di Equitalia», che nelle ultime rilevazioni è salito alla cifra stellare di 1.100 miliardi. Ogni Comune ha infatti il suo bel magazzino, in cui si accumula una Spoon River di cartelle e ingiunzioni dimenticate da tutti: ma non da chi deve costruire i bilanci degli enti locali, in cui anche dopo la riforma che avrebbe dovuto pulire la contabilità di Comuni e Regioni continuano ad accumularsi le entrate mai riscosse. Anche a livello locale le cifre fanno impressione. Solo a Roma sono ancora scritte in bilancio entrate accertate ma non riscosse per 3,36 miliardi di tributi (titolo I dell'entrata) e 4,49 miliardi fra multe e tariffe (titolo III). Per un totale di 7,86 miliardi di euro, una somma che basterebbe da sola a tagliare di quattro punti, invece dei due a cui lavora il governo, l'aliquota Irpef dei redditi fra 15 e 28mila euro: in tutta Italia, però, non solo a Roma.

La Capitale comunque, si diceva, è tutt'altro che un'eccezione, e offre solo i numeri più plateali di un problema che in realtà è endemico: e vale a Napoli 2,7 miliardi, a Milano 2,4, a Palermo 1,6 e così via. Al punto che, secondo i calcoli dell'Ifel, ci sono circa 1.300 Comuni (cioè in pratica uno su sei) in cui il fondo di garanzia per coprire i mancati incassi ha superato la soglia critica dell'8% delle entrate. Si tratta, di fatto, di un fallimento della riscossione, che non a caso si concentra a Sud in una geografia quasi perfettamente sovrapponibile a quella di disavanzi, pre-dissesti e dissesti. Perché la spesa è misurata sulle entrate previste (accertamenti), e quando quelle davvero riscosse (incassi) sono molto più basse si aprono buchi inevitabili nei conti.Il problema non è nuovo. Ed è al centro da almeno 20 anni di un'altalena di soluzioni sempre tentate ma mai realizzate davvero. Prima, nella seconda metà degli anni Duemila, ci provò l'allora neonata Equitalia, che dopo un'ampia campagna di autopromozione riuscì a siglare convenzioni con oltre 5mila Comuni. Per poi accorgersi, però, che la spesa era superiore all'impresa, cioè che le frastagliatissime entrate locali producevano enormi oneri di gestione e magre soddisfazioni negli incassi.

Si arrivò così al cambio di rotta sancito con il decreto sulle «semplificazioni fiscali» del 2011, che tornò indietro alimentando l'ipotesi di creare una Equitalia-bis nelle mani delle stesse amministrazioni locali sotto il cappello della governance centralizzata nell'Anci. Nemmeno questo progetto vide la luce e poi, pochi mesi dopo, l'esplodere della crisi del debito sovrano con lo spread a quota 575 ammainò di colpo ogni preoccupazione federalista e fece cadere il problema nel dimenticatoio. Le montagne di arretrati citate all'inizio sono figlie anche di questo eterno limbo.Ora ci riprova la delega fiscale. Che nei principi scritti nella bozza sulle entrate locali si pone l'obiettivo della «revisione del sistema della riscossione delle entrate degli enti locali anche attraverso forme di cooperazione tra lo Stato e gli enti locali, per rendere più efficienti le attività di gestione delle entrate». Tra le priorità ci sono le cosiddette case fantasma, e le regole di vigilanza sui concessionari privati. Fin qui i principi, che sono però tutti da tradurre in pratica.

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