Urbanistica

Demolizione opere abusive/1. Annullamento del permesso edilizio entro un «tempo ragionevole»

Il provvedimento di autotutela, afferma il Consiglio di Stato deve essere fondato su «profili di illegittimità e concrete ragioni di pubblico interesse»

di Massimo Frontera

Il permesso edilizio in sanatoria rilasciato dal comune marchigiano di San Benedetto del Tronto a seguito di una richiesta relativa al condono del 2003 è stato annullato in autotutela dall'ente locale circa dieci anni dopo, a seguito di una informativa della Guardia di Finanza contenente elementi indiziari secondo i quali le opere sanate sarebbero state ultimate in data successiva alla scadenza di legge. La conseguente ordinanza di demolizione è stata impugnata al Tar Marche dall'interessato. Il primo giudice ha respinto il ricorso, mentre invece il Consiglio di Stato ha accolto l'appello, annullando la sentenza del Tar e l'ordinanza comunale. Palazzo Spada - nella sentenza n.10186/2022 pubblicata lo scorso 18 novembre - ha richiamato l'ampio potere discrezionale che il legislatore riserva alla Pa in materia edilizia. Pertanto l'amministrazione deve esercitare tale potere non solo sulla base di elementi certi e convincenti ma anche entro un tempo ragionevole. In particolare, i giudici della Sesta Sezione di Palazzo Spada, hanno contestato all'Ente locale il fatto che la decisione di revocare il permesso edilizio sia intervenuta a una distanza di quasi dieci anni - cioè bel oltre un periodo "ragionevole" - e, soprattutto, senza alcun approfondimento di istruttoria per accertare e verificare gli elementi da considerare.

Gli argomenti del Comune (peraltro accolti dal Tar) erano sostanzialmente due. L'ente ha sostenuto che, sebbene l'annullamento del permesso sia arrivato dopo dieci anni dal suo rilascio, l'atto è comunque "tempestivo" in quanto immediatamente consequenziale alle informazioni fornite dalle Forze dell'ordine. Inoltre l'ente ha sostenuto che, nonostante la «inesistenza di una prova decisiva», emergerebbe «un quadro indiziario comunque grave, preciso e concordante, da cui si può obiettivamente dedurre che gli stessi siano stati conclusi in un momento successivo al 31.3.2003».

Ripercorrendo le decisioni dell'ente locale, il secondo giudice conclude che «emerge sia il difetto di istruttoria e di motivazione in ordine all'adozione di un atto di autotutela, sia l'assenza dei presupposti posti a base dell'atto stesso, in quanto la mera segnalazione della Guardia di finanza non è stata seguita da alcun procedimento penale». «In materia edilizia - ricorda il Consiglio di Stato - il potere di autotutela deve essere esercitato dall'Amministrazione competente entro un termine ragionevole e supportato dall'esternazione di un interesse pubblico, attuale e concreto, alla rimozione del titolo edilizio tanto più quando il privato, in ragione del tempo trascorso, ha riposto, con la realizzazione del progetto, un ragionevole affidamento sulla regolarità dell'autorizzazione edilizia; di conseguenza, nell'esternazione dell'interesse pubblico l'Amministrazione deve indicare non solo gli eventuali profili di illegittimità ma anche le concrete ragioni di pubblico interesse, diverse dal mero ripristino della legalità in ipotesi violata, che inducono a porre nel nulla provvedimenti che, pur se illegittimi, abbiano prodotto i loro effetti».

Nel caso particolare, il comportamento del Comune appare censurabile perché «dall'analisi della documentazione versata in atti emerge il dedotto difetto di istruttoria e di motivazione in merito alla sussistenza degli elementi evocati in termini di interesse pubblico ulteriore, rispetto al mero dato della presunta illegittimità, alla assenza del rispetto del termine ragionevole - stante il trascorso di dieci anni dal titolo oggetto di ritiro - nonché alla insussistenza della stessa falsa rappresentazione evocata.

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