Fisco e contabilità

Esenzione Imu con prova contraria sul dato anagrafico

L’insegnamento della Cassazione nelle sentenze di merito

di Massimo Romeo

Le risultanze anagrafiche hanno valore meramente presuntivo sul luogo di residenza effettiva e possono essere superate da una prova contraria che può consistere anche nella produzione della denuncia Tari, degli avvisi di pagamento delle utenze domestiche o della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà dell’amministratore di condominio. Così si pronuncia la Corte di giustizia tributaria di primo grado di Milano con la sentenza n. 2636 del 28 settembre 2022.

Un contribuente impugnava gli avvisi di accertamento Imu 2018 e 2019 in quanto residente, dimorante e domiciliato in un immobile acquistato nel 2012 come prima casa.

L’ente locale resisteva in giudizio eccependo che nei periodi accertati il ricorrente risultava ancora nel nucleo familiare insieme ai genitori, nella stessa via e numero civico, ma in appartamento diverso. Secondo la tesi del Comune non poteva godere della agevolazione fiscale in quanto «a fronte di un unico nucleo familiare vi può essere una sola abitazione principale ai fini Imu considerato che allo stesso civico, ma in altro appartamento, risultava residente anche la madre».

La Cgt di Milano accoglie le ragioni del contribuente confermando il diritto all’esenzione. I giudici (con riferimento a Cass. Sez. Trib. 8628 del 28.3.2019, Cass. n. 26985/2009; e 13151/2010) ritengono che le risultanze anagrafiche hanno valore meramente presuntivo sulla residenza effettiva e possono essere superate da prova contraria. Sul concetto di abitazione principale si era già espressa la ex Ctp Milano (2743/2021), affermando che in tema di Ici per abitazione principale, concetto valido anche ai fini Imu, non deve intendersi quella di residenza anagrafica, atteso che l’articolo 8, comma 2, Dlgs 504/1992, come modificato dall’articolo 1, comma 173, legge 296/2006, introduce una presunzione relativa che può essere superata fornendo prova contraria.

Il Codice civile definisce la residenza come «il luogo in cui la persona ha la dimora abituale». In molte occasioni la Cassazione (da ultimo 13241/2018), anche in ambito fiscale, ha ripreso il concetto civilistico determinato dalla abituale e volontaria dimora in un luogo, che si caratterizza per l’elemento oggettivo della permanenza e soggettivo dell’intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali. Va, altresì, considerato che la pronuncia in commento ha involontariamente anticipato, in linea di principio, quanto stabilito recentemente dalla Corte costituzionale (sentenza 209 del 13 ottobre scorso) ovvero che il requisito della dimora abituale va riferito soltanto al «possessore» e non più dunque al «nucleo familiare».

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