Imprese

Pnrr da rifare con il 46% delle imprese a rischio stop

di Enrico Caterini e Ettore Jorio

L'esito dell'analisi dal Centro studi Confindustria sul rischio composito per l'economia fa tremare i polsi. La conseguente sintesi espressa dal suo presidente, Carlo Bonomi, mette paura.

Il 46% delle imprese è a rischio di chiusura. Il problema è capire cosa accadrà dove le imprese non ci sono. Perché non ci sono mai state a sostenere i Pil regionali. Perché hanno già chiuso da tempo, stremate dal Covid, che ancora impera nel quotidiano. Il tutto è condito da un Pnrr fondato su programmi di investimenti vintage, risalenti fino al 2001 (si veda Nt+Enti locali & Edilizia 31 marzo), e su ipotesi realizzative conseguentemente inverosimili e, comunque, lontane di almeno quattro anni da oggi. In relazione a ciò, tantissime le ammissioni sulle trascuratezze rilevabili dal Pnrr, soprattutto nella cura dei contenuti delle Missioni più innovative (transizione digitale e green, efficienza energetica, nuovo welfare assistenziale). Non c'è stata in proposito la meticolosità necessaria ma solo attenzione ai quattrini in gioco, quale elemento attrattivo di chi per mestiere se li accaparra abitualmente. E dire che ai rilievi confindustriali devono aggiungersene altri: le grandi emergenze sopravvenute (immigrazione ucraina che si aggiunge a quelle storiche) che metteranno in crisi il sistema dell'accoglienza, salvo quello di chi la gestisce in via speculativa; un debito pubblico che oramai corre per conto suo; il risparmio privato, massimamente realizzato in decenni di lavoro anche generazionale, a rischio di evaporazione; le difficoltà crescenti per tante famiglie, soprattutto meridionali, di potere mettere insieme il pranzo con la cena.

Questo è il catalogo delle paure della nazione, che mette in condizione i cittadini di non vedere più futuro e di pagare sulla loro pelle l'inesigibilità dei diritti fondamentali. Ciò è rilevabile dalla caduta di iscrizione agli studi più avanzati e tecnologicamente performanti, residuati come possibili agli appartenenti ai soliti ceti privilegiati. Le famiglie comuni cominciano, al riguardo, a vivere le vergogne di un tempo. Di dover dire no alla continuazione avanzata dei saperi dei propri figli, alle loro specializzazioni, ai master facilitativi dell'impiego pubblico. Un handicap sociale gravissimo, che porta il Paese indietro di circa un secolo, in termine di precarietà della diffusione della cultura e di pericolo della più prossima offerta occupazionale privata, sempre di più votata all'approfondimento dei saperi.

Il dilemma che comincia a correre nelle vene della società civile più attenta è su come approntare soluzioni. Al di là delle più generali assicurazioni governative fondate sull'attuazione del Pnrr si avverte una certa riconosciuta critica sulla stesura del piano. Si avverte nelle parole del ministro dell'Economia Franco la necessità di rimetterci mano, ovviamente contrapposta alla sua totale riscrittura. Troppe le probabili défaillance, con quadri economico-finanziari non più sostenibili che lascerebbero i lavori quantomeno a metà, con obblighi di restituzione di quanto incassato. L'inadeguatezza delle opere programmate sui fabbisogni di ieri, l'elevazione dei prezzi che metteranno in crisi le loro realizzazioni e le imprese a rischio esistenziale obbligherebbero l'apertura di una trattativa in Europa mirata a incrementare i seppur generosi finanziamenti del Recovery Fund. Una maggiore concessione dei termini per rivedere sensibilmente quanto impacchettato in tutta fretta, in modo da riportarlo ad attualità.

La Ue è un soggetto indispensabile a risolvere la guerra, ma deve anche avere attenzione agli Stati membri, prioritariamente al nostro Mezzogiorno altrimenti in seria difficoltà.

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