Personale

Pubblico impiego, il rinnovo dei contratti vale sette miliardi

di Gianni Trovati

Tra arretrati e aumenti a regime, i rinnovi contrattuali del pubblico impiego valgono pochi spiccioli meno di sette miliardi. Il dato puntuale sul costo lordo dei nuovi contratti arriva dalla tabella che il Def, esaminato nel consiglio dei ministri di giovedì, dedica al conto economico delle amministrazioni pubbliche. La spesa per i redditi nella Pa vola quest'anno a 170,99 miliardi, cioè 6,98 miliardi sopra i livelli dello scorso anno. La gobba arriva dopo anni di stabilità, dovuta proprio al lungo blocco della contrattazione nel pubblico impiego; per i prossimi tre anni, esaurito l'effetto degli arretrati, le uscite si fermeranno a 169,7 miliardi, per scendere a 169,2 nel 2020.

Le prospettive
Queste dinamiche hanno bisogno di qualche spiegazione. I 169,7 miliardi del 2019, 5,7 miliardi sopra la spesa dell'anno scorso, indicano con buona approssimazione il valore a regime dei nuovi contratti e del riordino delle carriere che ha interessato il personale delle forze di sicurezza. Nel dato infatti pesano gli aumenti riconosciuti in busta paga, ma non gli arretrati 2016-2018 che si concentrano su quest'anno. Attenzione, però, perché dal 1° gennaio prossimo parte il nuovo triennio contrattuale, e la manovra d'autunno dovrebbe rimettere mano al portafoglio: il Def leggero varato dal governo, che si limita ai tendenziali a politiche invariate, tiene conto però solo della futura indennità di «vacanza contrattuale», cioè la voce che arriva ai dipendenti pubblici quando il contratto è in ritardo. La stessa impostazione a politiche invariate spiega anche la flessione della spesa nel 2020, quando senza nuovi interventi finirebbe il finanziamento delle missioni di pace.

Lordo e netto
Quello del pubblico impiego è un costo lordo, perché un terzo degli aumenti si riflette in maggiori entrate fiscali e contributive (solo per lo Stato, perché per gli enti locali l'effetto è minimo e limitato alle addizionali). Ma è solo una delle uscite in aumento, all'interno di una proiezione che porta la spesa primaria (quindi al netto degli interessi) a 761,1 miliardi nel 2021, con una crescita del 4,5% rispetto alle previsioni di quest'anno e del 7,5% rispetto al consuntivo del 2017. Nell'ottica del Def, la dinamica è resa sostenibile dalla crescita economica, che in quattro anni dovrebbe far lievitare il Pil nominale del 12,3% e quello reale del 5,5. La spesa pubblica è infatti ricchezza distribuita, per cui sull'equilibrio dei conti pesa la sua incidenza sul prodotto lordo, prevista in diminuzione dal 41,2% di quest'anno al 39,5% del 2021. Il dato è cruciale soprattutto per un Paese ad alto debito, tema su cui la conferma del rating arrivata venerdì sera da Standard & Poor's indica secondo il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan «che direzione e marcia sono quelle giuste».

Le pensioni
Ma in questo rapporto c'è ovviamente una componente di scommessa: le stime di crescita elaborate dal ministero guidato da Padoan sono state negli ultimi anni confermate a consuntivo, ma sulle prospettive a breve e medio termine pesano le incognite geopolitiche, i rischi protezionistici e tutte le variabili che sembrano anticipare un cambio di ciclo nell'economia mondiale. I numeri sulle uscite primarie nascono invece da una più sicura applicazione matematica delle leggi alle dinamiche demografiche del Paese. E proprio la demografia continua a spingere anche la spesa per pensioni, che nel 2021 arriverà a superare i 292 miliardi con un aumento del 10,6% rispetto al consuntivo dell'anno scorso anche per la ripresa dell'inflazione, e quindi delle rivalutazioni.

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