Amministratori

Servizi locali, nella riforma il buco delle aziende speciali

Gestione consentita anche se sfugge ai vincoli finanziari delle società

di Stefano Pozzoli

Riparte il percorso del decreto sui servizi pubblici locali, che è stato inviato alla Camera anche se ancora non ha ottenuto la previa intesa della Conferenza Unificata.

Vale la pena, dunque, ricominciare a guardarne con attenzione novità e criticità.

Un elemento da sottolineare è il ritorno, con l’articolo 14 rubricato «Scelta della modalità di gestione del servizio pubblico locale», delle forme di gestione obbligatorie, che vengono reintrodotte con le medesime modalità del decreto Madia a suo tempo naufragato.

Il decreto propone che, nel caso dei servizi a rete, siano di nuovo quelle previste nell’articolo 113 del Tuel: affidamento a terzi mediante procedura a evidenza pubblica; affidamento a società mista; affidamento a società in house. Limitatamente ai servizi diversi da quelli a rete rimangono invece la gestione in economia e le aziende speciali.

La scelta di tornare alle forme obbligatorie di gestione è certo opportuna. Si deve criticare, semmai, lo scarso coraggio che porta a non escludere la possibilità di ricorrere all’azienda speciale per la generalità dei servizi a rilevanza economica, visto la complessità che comporta la sua governance, rimasta immutata da decenni, in particolare quando si tratta di enti con più soci e quindi di aziende consortili.

Il suo mantenimento, dunque, ha due effetti. Il primo è che questa figura non è ricompresa nel Tusp, e quindi sfugge al regime di finanza pubblica lì previsto, con conseguenze ovvie; il secondo è che se si ritiene di mantenere questa figura giuridica è comunque necessario rivederne le modalità operative, che ancora si fondano sul Dpr 902/1986, più che nelle scarne disposizioni dell’articolo 114 del Tuel; quindi in un contesto in cui il ruolo del consiglio comunale era prevalente rispetto a quello del sindaco, con tutte le conseguenze del caso sotto il profilo operativo e industriale.

In realtà, comunque, la disposizione mira a quella che è una delle priorità del Decreto, ovvero la limitazione del ricorso all'in house providing. Infatti, precisa che «ai fini della scelta della modalità di gestione del servizio (…) l'ente locale e gli altri enti competenti tengono conto delle caratteristiche tecniche ed economiche del servizio da prestare, (…) dei risultati prevedibilmente attesi in relazione alle diverse alternative, anche con riferimento ad esperienze paragonabili, nonché dei risultati della eventuale gestione precedente del medesimo servizio sotto il profilo degli effetti sulla finanza pubblica (…) tengono altresì conto dei dati e delle informazioni che emergono dalle verifiche periodiche di cui all'articolo 30», articolo che tratta di verifiche periodiche sulla situazione gestionale dei servizi pubblici locali.

Si richiede, inoltre, che tale valutazione debba risultare, prima dell'avvio della procedura di affidamento del servizio, in un'apposita relazione nella quale sono evidenziate altresì le ragioni e la sussistenza dei requisiti previsti dal diritto dell'Unione europea per la forma di affidamento prescelta, nonché illustrati gli obblighi di servizio pubblico e le eventuali compensazioni economiche, inclusi i relativi criteri di calcolo, anche al fine di evitare sovracompensazioni. Siamo, in sostanza, alla richiesta di una comunicazione preventiva che pure, nel dibattimento in merito alla delega di cui alla legge concorrenza, era stata stralciata dal Parlamento.

Si noti che la disposizione di cui si parla (articolo 14) prevede che nella relazione deve risultare un piano economico-finanziario asseverato quale che sia la modalità di affidamento del servizio. Invece, negli articoli successivi, tale piano economico-finanziario asseverato sembra necessario, sempre per i soli servizi a rete, esclusivamente nel caso di affidamento in house providing (articolo 17).

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