Appalti

Costruzioni/1. La crisi del settore vale lo 0,5% del prodotto interno lordo

di Simone Filippetti, Laura Galvagni e Marigia Mangano

Oltre sei miliardi di euro di fatturato in meno, un calo che, secondo alcune stime, vale lo 0,4-0,5% del Pil. Tanto potrà costare al sistema Italia la recente crisi del settore delle costruzioni che ha travolto nomi di spicco del mondo dell'edilizia come Astaldi, Condotte, Trevi, Grandi Lavori Fincosit, Mantovani, Unieco e Toti ma anche piccole realtà, con il relativo substrato di fornitori e appaltatori. Una crisi che parte da lontano, dal 2008, ma che ha dispiegato gli effetti negativi soprattutto negli ultimi mesi. Basti ricordare che in dieci anni il peso delle costruzioni sul Prodotto interno lordo si è quasi dimezzato, passando dal 29% del Pil al 17% attuale. Tradotto significa 104 miliardi di giro d'affari polverizzati che stanno provocando danni a catena e rappresentano una mina vagante anche per il sistema bancario.

Se non bastasse, altri due indicatori aiutano a fotografare ancora meglio lo stato del comparto: a fronte di un debito lordo assai rotondo il fatturato realizzato in Italia ha subito una contrazione significativa. Il primo vale oltre 8,5 miliardi di euro mentre il secondo è sceso dai 6,8 miliardi del 2004 ai 5 miliardi del 2016. Una contrazione bilanciata dalla crescita dell'attività all'estero che oggi in media vale il 70% del giro d'affari delle compagnie mentre quattordici anni fa superava appena il 30% (dati Ance). Il punto, però, è che quel 70% è spesso concentrato in paesi ad alto rischio politico ed economico. Non a caso se si guarda la lista dei primi quattro mercati fuori dai confini nazionali le principali commesse sono in Venezuela, Qatar, Turchia e Argentina. In estrema sintesi, è il parere di un analista finanziario, il rischio non è stato gestito in modo opportuno e ad oggi le principali società di costruzioni “pagano” un portafoglio progetti sbilanciato.

Forse anche per questo, ha aggiunto l'analista, Salini Impregilo ha cercato di riequilibrare l'esposizione globale, che conta anche 600 milioni di crediti verso il Venezuela, andando ad acquistare l'americana Lane Construction. D'altra parte, la scelta di puntare sull'estero è stata quasi un passo obbligato per i big italiani. Nel paese sono venuti a mancare i grandi progetti e i tempi di pagamento della pubblica amministrazione si sono irrimediabilmente dilatati (ad oggi si contano 8 miliardi di arretrati). Con il risultato che dal 2008 si sono persi oltre 600 mila posti di lavoro; sono fallite 120 mila aziende e le opere bloccate sono 300 per un valore di 20 miliardi di euro. Significativo, riguardo ai rapporti con il committente pubblico, quanto si legge nell'ultimo bilancio di CMC, cooperativa di costruttori che negli anni è diventata il quinto gruppo nazionale con un fatturato che supera il miliardo di euro.

La società nel 2016 ha messo nei conti poco meno di 100 milioni di crediti commerciali ceduti in parte pro soluto e in parte pro solvendo, di questi una fetta è riferibile a contratti con l'Anas. Nel 2017 ha venduto altri 53 milioni di crediti. Così i ritardi negli incassi, la spinta all'estero in paesi che si sono poi rivelati ad alto rischio e il conseguente ricorso al debito per far fronte alla mancanza di nuove iniziative e relativi anticipi, ha creato una tensione a livello di settore che ha già messo sotto scacco diversi big, la cui crisi di liquidità ha compromesso l'operatività anche sul fronte della conquista di nuove commesse e il completamento di quelle vecchie. È fermo, per esempio, il cantiere della TecnoStrade di Bergamo, una delle 30 aziende che lavorano al Quadrilatero Umbria-Marche, la superstrada a quattro corsie che deve collegare Perugia con Ancona, attesa da 30 anni.

L'appalto è di Astaldi e il costruttore romano, in difficoltà, avrebbe sospeso i pagamenti ai fornitori. Complice il fatto che il sistema bancario, allertato dal contesto sfavorevole, tanto più in vista di un prossimo rialzo dei tassi, ha chiuso i rubinetti. E soprattutto si trova a fare i conti con un comparto talmente frammentato da risultare davvero fragile. Nella classifica mondiale dei più grandi costruttori c'è un solo italiano: Salini Impregilo e per trovarlo bisogna scendere fino alla 15esima posizione. Quattro sono cinesi e poi Francia, Spagna e Austria con due presenze a testa. C'è, quindi, anche un problema di dimensioni dell'industria. Diventato ancor più lampante con l'acuirsi della recente crisi. Astaldi domani valuterà in consiglio di amministrazione la possibilità di ricorrere al concordato in bianco per poi poter procedere nell'arco di massimo tre mesi con un concordato preventivo piuttosto che con un progetto di ristrutturazione ex articolo 182bis.

Il caso Astaldi si è manifestato proprio a valle della vicenda Condotte, terzo player italiano che ha chiesto in agosto l'amministrazione straordinaria. Anche guardando ad aziende più piccole la situazione è delicata: Grandi Lavori Fincosit ha in corso un concordato con riserva, mentre per Mantovani solo di recente è stata trovata una soluzione con il potenziale passaggio dell'asset a Coge. Il gruppo Trevi, invece, è riuscito pochi giorni fa a firmare un accordo di stand still con le banche. Ma entro fine anno dovrà essere definito un piano di salvataggio che possa ristrutturare il debito del gruppo salito a 740 milioni e che, considerate le linee di firma, arriva a un totale di 1,1 miliardi di euro concentrati nei bilanci di Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Bpm, Bnl-Bnp e Mps. Queste stesse banche sono anche tra i principali creditori degli altri gruppi di costruzioni in crisi e questo ha ovviamente creato una situazione di forte preoccupazione nel mondo del credito. E non solo per meri calcoli finanziari, esiste un tema lavoro che non può essere sottovalutato: tutti questi focolai valgono 25mila posti di lavoro, quanto un'intera cittadina di provincia.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©