Autonomia, 22 anni di paradossi non risolti
Il trasloco delle funzioni sposterebbe ovviamente potere e risorse, che rappresentano il cuore vero della battaglia. E che infatti hanno animato un lungo dibattito sui meccanismi di calcolo da utilizzare per misurare i fondi da trasferire alle regioni
La passione italiana per il paradosso raggiunge vette inesplorate sull'autonomia differenziata. La possibilità di attribuire funzioni aggiuntive alle Regioni che le richiedono è stata inserita in Costituzione nel 2001 dal centrosinistra, che oggi evoca il rischio di spaccare l'Italia dopo che molte Regioni a guida Pd, dall'Emilia Romagna alla Toscana fino al Lazio, hanno chiesto o progettato di chiedere nuove competenze.
Ad attuare la previsione costituzionale è invece un governo di centrodestra che fatica a celare la propria spaccatura fra la Lega che prova per questa via a rinverdire vecchie battaglie autonomiste e Fratelli d'Italia che ambisce a una guida centrale forte e blindata dal presidenzialismo.
Ma il cortocircuito, ammesso che il progetto avviato oggi in preconsiglio con l'esame della legge quadro preparata dal ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Roberto Calderoli arrivi al traguardo, può andare oltre i confini di una politica abituata alle contraddizioni, e incidere su un piano pratico con conseguenze tutte da misurare. Perché sui tavoli del governo finiscono ora 22 anni di contraddizioni irrisolte.
Le competenze
Il punto essenziale della riforma è nelle competenze che possono essere trasferite alle Regioni. E qui emergono tutti i problemi di una riforma, quella del 2001, che ha disegnato una distribuzione di funzioni ampiamente irrazionale fra i diversi livelli di governo. Le competenze che possono essere trasferite sono quelle che il Titolo V assegna oggi allo sfortunato esperimento della “legislazione concorrente”, in cui lo Stato definisce la cornice generale al cui interno si possono muovere le Regioni con la disciplina di dettaglio. Nell'elenco, scritto all'articolo 117 della Costituzione, si incontrano molte materie assai difficilmente regionalizzabili, come le «grandi reti di trasporto e navigazione» o la «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia».
Rischi e contraddizioni
Siamo certi che sia una buona idea affidare l'energia alle regioni proprio mentre il governo spinge per una politica comune continentale perché la crisi ha mostrato tutti i limiti delle azioni nazionali in ordine sparso? Non è chiaro poi che cosa possa concretamente significare l'assegnazione alle Regioni di materie come «il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», funzione tipicamente centrale in coordinamento stretto con l'Unione europea, o la «ricerca scientifica e tecnologica», anch'essa al centro di piani nazionali e comunitari difficilmente declinabili in chiave regionale o “l'ordinamento della comunicazione». Il trasloco può poi riguardare «istruzione», «professioni» e «sicurezza sul lavoro», dove il rischio di uno spezzatino territoriale può produrre conseguenze facili da immaginare
La procedura
Nella lista del possibile trasloco ci sono poi materie più coerenti con un'articolazione regionale, soprattutto per quel che riguarda il credito territoriale, ma accendono una passione politica decisamente più tenue. E la definizione degli assetti caso per caso è lasciata alle richieste regionali che dovranno costruire un'intesa bilaterale con il governo, che prende la forma di allegato a un disegno di legge da approvare ovviamente in Parlamento.
I soldi
Il trasloco delle funzioni sposterebbe ovviamente potere e risorse, che rappresentano il cuore vero della battaglia. E che infatti hanno animato un lungo dibattito sui meccanismi di calcolo da utilizzare per misurare i fondi da trasferire alle regioni. In sintesi estrema il derby ha opposto il criterio della spesa storica, che premierebbe mediamente le regioni del Nord dove il livello dei servizi è maggiore e quindi lo è anche il loro corso, ai Lep, i livelli essenziali delle prestazioni da definire prima di trasferire le funzioni per misurarne i costi da finanziare integralmente. Il testo ora all'esame del governo conferma questo secondo parametro, ma anche qui il passaggio dalla teoria alla pratica non è né semplice né immediato.
Che cosa sono i Lep
I livelli essenziali delle prestazioni, spiega il testo, sono «la soglia costituzionalmente necessaria e costituiscono il nucleo invalicabile per rendere effettivi» i diritti civili e sociali previsti dalla Carta fondamentale. In pratica, si deve prima definire qual è il livello minimo di ogni servizio, e di conseguenza garantirne il finanziamento per evitare che le differenze territoriali dei bilanci pubblici continuino a tradursi in servizi scadenti nelle aree più povere.
Fin qui, appunto, la teoria, molto bella ma altrettanto complicata da trasformare in pratica. Perché ammesso che si arrivi a una definizione puntuale dei Lep, prevista da 22 anni ma mai attuata e ora da completare nel breve volgere di pochi mesi, poi servono i soldi. Se in Calabria o in Campania occorre raddoppiare un servizio per raggiungere il livello minimo delle prestazioni, questo raddoppio va finanziato. Come, al momento, non è dato di sapere.