Imprese

Caro materiali, due strade per le imprese: revisione prezzi e risoluzione del contratto

Il codice appalti non riporta più il divieto di appellarsi al codice civile. Ma per tutelare i costruttori serve un intervento normativo

di Fabio Di Salvo

È tema di stretta attualità quello collegato al rincaro vertiginoso dei prezzi di alcuni materiali da costruzione nel periodo pandemico (l'incremento di circa il 130% registrato dal prezzo dell'acciaio tra novembre 2020 e febbraio 2021; i polietileni +40%, il rame +17%, il petrolio +34% e i suoi derivati).

Nel settore dei lavori pubblici questa problematica è, se possibile, ancora più pressante per gli operatori privati, atteso l'inevitabile insorgere di impedimenti che non sono solo di carattere "normativo" bensì anche "sostanziale":
a) sicuramente la tempistica dei pagamenti, che genera un'evidente discrasia fra la necessità di anticipare buona parte dei costi nei confronti dei fornitori (i quali, a loro volta, difficilmente procedono con la fornitura in assenza di un congruo acconto) e la riscossione dei singoli Stati di Avanzamento da parte degli appaltatori;
b) le difficoltà di approvvigionamento dei materiali (causate dall'aumento dei prezzi che, a sua volta, implica scarsità dell'offerta unitamente al minore "potere contrattuale" degli appaltatori nei confronti dei fornitori);
c) il prolungamento dei tempi di esecuzione dell'appalto – diretta conseguenza delle difficoltà di approvvigionamento – che implica, come ogni operatore del settore sa, l'aggravamento degli oneri a carico dell'appaltatore determinato dallo stravolgimento temporale della commessa.

A fronte di tali evidenti problematiche, pervero, l'assetto normativo attuale non offre soluzioni davvero efficaci: l'art. 106, comma 1 lett. a), D.lgs. 50/2016, infatti, prevede la possibilità che le stazioni appaltanti inseriscano, nei documenti di gara iniziali, «clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi» ma nulla dice sull'ipotesi in cui tali clausole non siano previste e/o inserite nei bandi, nei capitolati o nei contratti.

Parimenti, anche nell'ipotesi in cui sia espressamente prevista la c.d. «revisione prezzi», le variazioni in aumento o in diminuzione posso essere prese in considerazione – sulla base dei prezziari regionali e/o nazionali – «solo per l'eccedenza rispetto al dieci per cento rispetto al prezzo originario e comunque in misura pari alla metà».

A ben vedere, dunque, la normativa vigente non solo è scarna (nessun accenno ulteriore, rispetto al Codice, si trova nel Dm Mit 49/2018, in ordine ai compiti e alle funzioni del Direttore dei Lavori), bensì risulta molto più penalizzante – per l'appaltatore – rispetto alla più precisa e completa normativa previgente, di cui agli artt. 133 D.lgs. 163/2006 (vecchio Codice) e 171 DPR 207/2010 (vecchio Regolamento).

A supporto degli operatori privati, tuttavia, occorre rammentare che l'art. 30, comma 8, D.lgs. 50/2016 dispone che «per quanto non espressamente previsto nel presente codice e negli atti attuativi […] alla stipula del contratto e alla fase di esecuzione si applicano le disposizioni del codice civile».

In questo senso, possono farsi alcune utili considerazioni:

- l'art. 106 Dlgs. 50/2016 non riporta più alcun accenno al divieto di applicazione del comma 1 dell'art. 1664 c.c. (come invece espressamente prevedeva il comma 2 dell'art. 133 del vecchio Codice); se ne deduce, quindi, che l'art. 1664, comma 1, del codice civile è pienamente applicabile ai contratti pubblici («Qualora per effetto di circostanze imprevedibili si siano verificati aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d'opera, tali da determinare un aumento o una diminuzione superiori al decimo del prezzo complessivo convenuto, l'appaltatore o il committente possono chiedere una revisione del prezzo medesimo. La revisione può essere accordata solo per quella differenza che eccede il decimo»);

- il comma 2 dell'art. 1664 c.c., parimenti applicabile in caso di appalti pubblici, sancisce: «Se nel corso dell'opera si manifestano difficoltà di esecuzione derivanti da cause geologiche, idriche e simili, non previste dalle parti, che rendano notevolmente più onerosa la prestazione dell'appaltatore, questi ha diritto a un equo compenso»;

-la giurisprudenza di merito e di legittimità ha da tempo chiarito come tale fattispecie debba intendersi contemplare tutte le ipotesi di difficoltà sopravvenute derivanti da «cause naturali>, con la sola esclusione di «diverse cause oggettive di difficoltà sopravvenuta quali i fatti umani, sebbene rivelatisi idonei a produrre effetti identici o analoghi alle cause naturali> (Cass. Civ., sez. I, 28.03.2001 n. 4463; Lodo Arbitrale Parma, 26 maggio 2015, n. 24; Cass. Civ., sez. I, 20.02.1984 n. 1201; Cass. Civ., sez I, 26.01.1985 n. 387); in tal senso, è un fatto oggettivo – sicuramente indipendente dalla volontà delle parti – che il rincaro dei prezzi dei materiali sia dovuto alla crisi economica susseguente alla crisi pandemica;

- l'applicabilità dell'art. 1664 cod. civ. dovrebbe dunque favorire un riequilibrio degli appalti (anche di quelli per i quali non siano previste specifiche clausole di revisione prezzi) o nel senso del riconoscimento della revisione stessa o nel senso del raggiungimento di un accordo con la stazione appaltante per un equo compenso.

È evidente, si aggiunga, che ognuna di queste possibilità dovrebbe essere – alternativamente – perseguita dall'appaltatore, con richieste scritte ad hoc nei confronti della stazione appaltante. Ciò non toglie, inoltre, che l'appaltatore – in caso di diniego da parte della stazione appaltante – possa (ed anzi, debba) iscrivere idonea riserva negli atti contabili dell'appalto, facendo valere il grave squilibrio economico che ha interessato la commessa a seguito dell'abnorme aumento dei prezzi.

Qualora, poi, nonostante l'assunzione di idonee iniziative tese al riequilibrio dell'appalto, questo non dovesse essere raggiunto (vuoi per l'opposizione della stazione appaltante vuoi per il prolungamento dei tempi di definizione della questione controversa), permane la possibilità, parimenti prevista dal codice civile (art. 1467), di richiedere la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.

Nell'ipotesi in cui si decidesse di perseguire la strada della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, è bene infine ricordare che essa – anche ai sensi dell'art. 1672 c.c. – darebbe diritto al pagamento dei lavori eseguiti o dei servizi prestati (unitamente, eventualmente, ai materiali a piè d'opera) ma non al risarcimento del danno (mancato utile, per intenderci) poiché non trattasi di fattispecie di risoluzione per inadempimento (o per colpa o grave negligenza).

La breve disamina qui riportata, ovviamente, ha un'utilità limitata, poiché non esclude l'insorgenza di contenziosi con la stazione appaltante; sarebbe dunque auspicabile che il Legislatore – proprio in ragione dell'eccezionalità ed imprevedibilità delle attuali condizioni di mercato – intervenisse sul tema con normativa specifica (come peraltro già ampiamente sollecitato dalle associazioni di categoria).

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