Appalti

Così il decreto Ambiente trasforma in «urbani» i rifiuti speciali

La questione accende un allarme rosso fra le aziende del settore per le sue possibili conseguenze dirompenti che si pongono in direzione opposta all’«end of waste» e all’economia circolare nell’era del «Green New Deal»

di Gianni Trovati

Mentre la politica si spacca sul decreto semplificazioni e tutti gli occhi parlamentari guardano alla conversione del provvedimento intitolato al «Rilancio», un paio di commi dalla prosa tecnica, infilati in un apparentemente sonnacchioso decreto legislativo per recepire una direttiva Ue, rischiano di cancellare di colpo un intero comparto industriale. Con quei due commi, 30 milioni di tonnellate all’anno di rifiuti «speciali» diventerebbero d’incanto «urbani». E sui rifiuti urbani domina la gestione comunale, tramite le aziende pubbliche in genere titolari di affidamenti diretti, che nei fatti rischia di cancellare lo spazio di azione per le aziende private.

La questione è intricata, e accende un allarme rosso fra le aziende del settore per le sue possibili conseguenze dirompenti, che in silenzio viaggiano in direzione diametralmente opposta ai provvedimenti sull’«end of waste» e ai milioni di dibattiti che di slogan in slogan enfatizzano l’importanza dell’«economia circolare» nell’era del «Green New Deal».

Il decreto legislativo preparato dal governo, e ora in discussione in commissione Ambiente alla Camera per il parere atteso a giorni, è fedele alla lettera della direttiva europea. Ma non allo spirito. Perché la direttiva 2018/851 detta in effetti una nuova definizione di «rifiuti urbani», che esclude espressamente da questa etichetta solo i «rifiuti della produzione, dell’agricoltura, della silvicoltura, della pesca, delle fosse settiche, delle reti fognarie e degli impianti di trattamento delle acque reflue, ivi compresi i fanghi di depurazione, i veicoli fuori uso o i rifiuti da costruzione e demolizione». In pratica, tra gli urbani finirebbero anche tutti i rifiuti prodotti dalle attività industriali, artigianali e dal commercio.

Ma è lo stesso testo comunitario a spiegare che la definizione serve per fissare «l’ambito di applicazione degli obiettivi di preparazione per il riutilizzo e riciclaggio e le relative norme di calcolo», e che soprattutto «essa è neutra rispetto allo stato giuridico, pubblico o privato, del gestore dei rifiuti».

Ma nella sua traduzione italiana tanta cautela si perde. Perché la nuova classificazione va direttamente a sostituire gli articoli 183 e 184 del Testo unico ambientale (Dlgs 152 del 2006), e fa scattare l’effetto domino sui confini fra le aree di attività lasciate al mercato e quelle abbracciate dalle gestioni comunali. Non solo: secondo i tecnici delle associazioni la trasformazione in «urbani» dei rifiuti che diverrebero ex speciali cancellerebbe una serie di monitoraggi che oggi si effettuano attraverso i formulari di identificazione indispensabili nei trasporti. Tutti obblighi da cui i rifiuti urbani sono esentati.

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