Fisco e contabilità

Fisco locale, le Regioni contro la riforma: «Incostituzionale»

Dopo lo stop dei Comuni, in salita il confronto con i governatori

Panoramica dell'aula di Montecitorio,durante il seguito della discussione del disegno di legge per l'adempimento degli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione Europea- Legge europea 2014 (C. 2977-A), Roma, 9 giugno 2015.   ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI

di Gianni Trovati

Per i tecnici delle Regioni il decreto che attua il capitolo della riforma fiscale dedicato ai tributi degli enti territoriali è «un passo indietro» rispetto al federalismo del 2011, e si muove «in difformità con quanto affermato dalla sentenza 37/2024 della Corte costituzionale, che sancisce il principio «non si torna indietro», affermando che non è ammissibile ridurre gli spazi di autonomia regionale già riconosciuti, e dallo stesso articolo 119 della Costituzione».

Le accuse che si leggono nel documento inviato alla conferenza Unificata dai tecnici della Conferenza delle Regioni sono pesanti per un provvedimento, secondo la delega fiscale, chiamato ad «assicurare attraverso il potenziamento dell’autonomia finanziaria la piena attuazione del federalismo fiscale» degli enti territoriali, che è peraltro un obiettivo posto dal Pnrr entro il primo trimestre del 2026. Obiettivo a rischio, suggerisce il documento delle Regioni. Altre bordate erano arrivate nella stessa sede dall’Anci, che teme un effetto collaterale da 4,9 miliardi sui conti dei Comuni (Nt+ Enti locali & edilizia del 13 giugno).

Gli ingredienti per il cortocircuito politico non mancano. Perché in gioco c’è un federalismo fiscale caro alla Lega molto più che a Fratelli d’Italia, ma sbandierato negli anni sia dal centrosinistra che l’ha messo in Costituzione nel 2001 sia dal centrodestra che ha provato ad attuarlo fra 2009 e 2011. E le nubi si addensano intorno a un capitolo importante della riforma fiscale, che dopo l’approvazione in prima lettura nel consiglio dei ministri del 9 maggio è scomparso dai radar. Il testo è arrivato in Parlamento il 18 giugno, e le commissioni Bilancio di Camera e Senato hanno tempo fino al 18 luglio per esprimere il proprio parere. Che però, tutto lascia pensare, arriverà senza l’intesa con i diretti interessati, cioè le Regioni e gli enti locali. Come mai?

In gioco ci sono complessi meccanismi di finanza pubblica, ma il senso della questione è limpido: l’attuazione del federalismo fiscale solleva incognite pesanti per i conti statali, e per evitarli senza sforare il target del Pnrr la riforma mette in piedi un complesso dare-avere fra Stato e Regioni che cambia la forma ma non la sostanza degli assetti finanziari attuali.

Per capire il punto bisogna allontanarsi ancora una volta dai capitoli più discussi della riforma, che ha acceso qualche interesse soprattutto intorno alla possibilità data agli enti locali di introdurre autonomamente sanatorie e definizioni agevolate per i propri contribuenti morosi, senza doversi necessariamente agganciare alle rottamazioni nazionali come accade ora. Ma il cuore finanziario è altrove. E lo si incontra negli ultimi articoli del decreto, dal 30 in poi, che disegnano la nuova architettura delle entrate di Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni nell’Italia “federalista”.

In sintesi estrema, la riforma ha l’obiettivo di cancellare i trasferimenti statali alle Regioni, incompatibili con un assetto davvero federalista, per sostituirli con una compartecipazione all’Irpef. Che però, qui casca l’asino, saranno fisse, misurate «in modo tale da garantire al complesso delle Regioni entrate corrispondenti ai trasferimenti statali soppressi» (articolo 30, comma 2 del decreto legislativo). Se nel tempo l’economia cresce, e aumenta il gettito Irpef, le risorse aggiuntive «restano acquisite al bilancio dello Stato» (comma 3). Perché in caso contrario, è facile intuire, i conti centrali perderebbero parte dei benefici finanziari portati dalla crescita: e avrebbero bisogno di coperture aggiuntive per raggiungere gli stessi saldi.

Il meccanismo sostituisce quello previsto nella riforma Calderoli del 2011, che in cambio dei trasferimenti prevedeva di «rideterminare» (ovviamente al rialzo) l’addizionale regionale all’Irpef. Non a caso, quella norma è rimasta congelata per 14 anni, di rinvio in rinvio è stata messa in calendario per il 2027, e ora si avvia a uscire di scena senza mai essere stata applicata. Per cedere il passo a quella nuova che, secondo il decreto, non entrerebbe a regime prima del 2030.

Contro la compartecipazione si sono scagliati anche i Comuni, per il timore di perdere una quota (i 4,9 miliardi) dei trasferimenti statali che le Regioni girano ai sindaci per finanziarne le funzioni fondamentali. E chiedono, a loro volta, una fetta di Irpef erariale, per rientrare nel mosaico federalista. Più tranquille le Province, destinatarie di una compartecipazione Irpef per sostituire l’attuale imposta sull’Rc Auto: che però non scompare, ma viene girata allo Stato.

Perché il federalismo non deve colpire i conti dello Stato, ma non sembra in grado nemmeno di alleggerire quelli a carico dei contribuenti.

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