Il CommentoPersonale

Il futuro dei dirigenti nella Pa e la scelta di percorsi chiari

di Antonio Naddeo e Raffaella Saporito

La pervicacia con cui ritorna la proposta di stabilizzare i funzionari-dirigenti a contratto lascia pensare che prima o poi si troverà un varco e i promotori della norma riusciranno nell’intento.

Quel giorno sarà un bel giorno per i suddetti funzionari, magari anche per le amministrazioni coinvolte, dove gli stessi hanno certamente prestato onorato servizio, ma sarà anche la dichiarazione della sconfitta del nostro modello di dirigenza.

Prima di questa débâcle, si apra un’ampia, sincera e disincantata riflessione sulla dirigenza pubblica nel nostro Paese.

Sul tavolo mettiamo due opzioni.

La prima è abolire il ruolo dirigenziale, come già accade in altri Paesi europei, dove la dirigenza è un incarico temporaneo dato ai funzionari, come per le nostre Po (posizione organizzative), con limiti alla riconferma e obblighi di rotazione. Fine della dirigenza di ruolo. Scenario provocatoriamente un po’ estremo.

L’alternativa è difendere il modello di dirigenza di ruolo, il cui ingresso è regolato dal concorso. Pertanto, la proposta collegata alla seconda opzione è di rendere indisponibili i posti per dirigente a contratto ai funzionari, salvo l’uscita permanente dal ruolo, così da ricondurre la dirigenza a contratto alla sua funzione originaria, ovvero dotarsi di competenze dirigenziali attingendo dal mercato esterno alla Pa, nei limiti percentuali previsti dalle norme.

Questa seconda proposta si basa sulla constatazione che la proliferazione degli incarichi a contratto è legata anche ad un sovradimensionamento dei posti dirigenziali: in alcuni ministeri, per ogni dirigente in servizio ci sono una media di 6 funzionari. Ciò dipende da organizzazioni obsolete e dalla necessità di offrire opportunità di carriera ai funzionari più bravi.

Allora non serve far crescere il numero di dirigenti, ma rendere esecutiva la quarta area (appena istituita nel Ccnl funzioni centrali) pensata proprio per offrire opportunità di crescita ai più meritevoli, senza frammentare pericolosamente l’organizzazione.

Quanto alla valorizzazione degli interni, è previsto già dalle norme sull’accesso alla dirigenza, ulteriormente riformate dal DL 80 del 2021 che con l’art. 3 riforma l’art 28 del DLgs 165/2001 e prescrive che le prove per l’accesso interno alla dirigenza valorizzino anche le competenze collegate al ruolo (si veda alla voce leadership) e le esperienze a esso coerenti.

Già in occasione della conversione dello stesso decreto è comparso – ed è stato approvato dal Parlamento – un emendamento che stabilisce una ulteriore corsia preferenziale per i funzionari destinatari di contratti da dirigente. Emendamento discutibile anche perché ridondante: chi ha maturato esperienza da dirigente a contratto (nella stessa o in altra amministrazione che celebra il concorso-assessment) dovrebbe sentirsi già di per sé avvantaggiato, avendo avuto occasione di mettere alla prova le competenze oggetto di valutazione.

Quando ci chiediamo come mai i giovani si sentono poco attratti dalla Pubblica amministrazione dobbiamo anche dirci che un limite di fondo è la scarsa chiarezza dei percorsi di carriera. Queste proposte sono incomprensibili fuori dalla asfittica bubble di chi bazzica da una vita il settore pubblico. Sono incompatibili con la visione di una nuova PA che vuole diventare un posto dove i percorsi di sviluppo di competenze e di carriera sono dinamici e trasparenti. Come sempre, chi cerca di difendere l’interesse di una sparuta categoria magari si convince pure che il proprio vantaggio coincida con quello collettivo. Per uscire da questo cortocircuito di autoreferenzialità, si apra un dibattito serio sul futuro della dirigenza. Ma poi si scelga una strada: se la carriera si fa per concorso, si lavori per qualificarlo, senza sconti e scorciatoie con norme e normette.