Appalti

Interdittiva antimafia giustificata in caso di rapporto commerciale con l'impresa esposta a rischio di influenza criminale

Il giudici della III sezione del Consiglio di Stato confermano e rafforzano i principi della misura

di Massimo Frontera

Il rapporto commerciale con un'impresa ritenuta esposta a rischio di influenza criminale giustifica l'interdittiva antimafia nei confronti dell'operatore coinvolto. Lo affermano i giudici della III Sezione del Consiglio di Stato (n.7890 pubblicata il 25 novembre 2021) facendo fare alla misura dell'interdittiva un passo avanti nel rafforzamento delle caratteristiche di azione preventiva, basata su elementi presuntivi e «probabilistici». Nel caso specifico, il rapporto commerciale viene ritenuto un indizio di «cointeressenza» e veicolo di un possibile travaso di cultura criminale dall'impresa già attenzionata in direzione dell'impresa con la quale vengono attivati rapporti commerciali. Questa la conclusione dei giudici: «Uno degli indici del tentativo di infiltrazione mafiosa nell'attività d'impresa - di per sé sufficiente a giustificare l'emanazione di una interdittiva antimafia - è identificabile nella instaurazione di rapporti commerciali o associativi tra un'impresa e una società già ritenuta esposta al rischio di influenza criminale, in ragione della valenza sintomatica attribuibile a cointeressenze economiche particolarmente pregnanti». «Queste, infatti - si legge ancora nella pronuncia - giustificano il convincimento, seppur in termini prognostici e probabilistici, che l'impresa controindicata trasmetta alla seconda il suo corredo di controindicazioni antimafia, potendosi presumere che la prima scelga come partner un soggetto già colluso o, comunque, permeabile agli interessi criminali a cui essa resta assoggettata (o che, addirittura, interpreta e persegue)».

Il caso e le motivazioni di Palazzo SPada
La vicenda riguarda un'impresa che impugna di fronte al Tar Campania un provvedimento di interdittiva del prefetto di Napoli sulla base di «partecipazioni» commerciali con un'impresa «ritenuta connotata da elementi di disvalore antimafia» ma nei confronti della quale sono stati anche «accertati fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso». L'operatore interessato ha contestato all'atto del prefetto il «difetto di istruttoria e motivazione». Dalla sentenza si ricava inoltre che il prefetto, in relazione a un'ordinanza del Consiglio di Stato che chiedeva di definire il quadro probatorio, «non ha adempiuto a tale ordine istruttorio, dato che non è stato chiarito né il contenuto né la durata del rapporto di presupposizione né sono stati presentati altri elementi fattuali in grado di rivelare una cointeressenza economica». I giudici del Consiglio di Stato, oltre a respingere l'istanza cautelare, confermano infine la sentenza del Tar, sfavorevole all'impresa interessata, in quanto, alla luce degli elementi forniti a seguito di indagni della Dia, «le valutazioni del Prefetto meritano di essere confermate, non essendo i motivi di appello - volti a scardinare il quadro fattuale che è alla base del provvedimento - suscettibili di positiva valutazione».

I principi dell'interdittiva antimafia
Quanto agli aspetti che attengono ai principi giuridici della misura dell'interdittiva antimafia, i giudici di Palazzo Spada richiamano tutti i principi a favore delle sue caratteristiche necessariamente di discrezionalità, presuntività, prevenzione e probabilità; confermandone inoltre la validità anche quando i fatti e le relazioni sono risalenti nel tempo. «Soltanto là dove l'esame dei contatti tra le società riveli il carattere del tutto episodico, inconsistente o remoto delle relazioni d'impresa - ammettono i giudici - deve escludersi l'automatico trasferimento delle controindicazioni antimafia». Elementi non riscontrati nel caso in questione.

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