La Corte europea salva la norma che vieta gli incarichi ai pensionati
L'articolo 5, comma 9, del Dl 95/2012 che ha introdotto il divieto per le pubbliche amministrazioni di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza, non contrasta con il diritto comunitario. Lo afferma la Corte di giustizia Ue con la sentenza del 2 aprile nella causa C-670/18.
La norma
Nell'ambito della manovra del Governo Monti tesa a ridurre le spese delle pubbliche amministrazioni, l'articolo 5 del Dl 95/2012 ha inserito il divieto per tutte le pubbliche amministrazioni di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza nonché incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo, fatta eccezione per i componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi. Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni sono consentiti solo se resi a titolo gratuito. Questa disposizione è stata impugnata presso il Tar Sardegna perché ritenuta lesiva delle persone collocate in quiescenza, la cui età viene a costituire per legge una discriminazione indiretta, per questo contraria alla direttiva 2000/78 e l'articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. I giudici amministrativi si sono rivolti alla Corte europea per comprendere la compatibilità della disposizione con il diritto eurounitario.
La parità di trattamento
La Corte, chiamata a valutare se la disposizione del 2012 violi il principio della parità di trattamento, afferma che l'articolo 5 non fa direttamente riferimento a una determinata età, in quanto l'esclusione si applica a qualunque persona collocata in quiescenza, la cui età può dunque essere compresa tra i 60 e i 75 anni secondo l'ordinamento italiano. Purtuttavia, prosegue, è innegabile che il criterio è indirettamente correlato all'età, «dal momento che il beneficio di un trattamento di quiescenza è subordinato al compimento di un certo numero di anni di lavoro e alla condizione di aver raggiunto una determinata età».
La normativa dunque istituisce una discriminazione indiretta basata sull'età dell'interessato, per cui occorre valutare se la disparità di trattamento possa considerarsi oggettivamente e ragionevolmente giustificata nell'ambito del diritto nazionale. Nel caso di specie, la normativa nazionale ha lo scopo di garantire il rinnovo del personale mediante l'assunzione di giovani e realizzare un'effettiva revisione della spesa pubblica mediante la riduzione dei costi di funzionamento dell'amministrazione pubblica, evitando il cumulo di retribuzioni e di trattamenti di quiescenza provenienti da fondi pubblici.
Il giusto equilibrio
Secondo la Corte, è ampiamente legittimo l'obiettivo di garantire un ringiovanimento del personale in attività, che anzi rientra in uno dei cardini della politica europea di sostegno all'occupazione, in virtù del quale il diritto comunitario riconosce alcune deroghe al divieto di discriminazione basato sull'età quando l'obiettivo consiste nello stabilire un equilibrio strutturale in ragione dell'età tra giovani funzionari e funzionari più anziani, al fine di favorire l'assunzione e la promozione dei giovani. Ma oltre che legittimo, l'obiettivo è anche appropriato e necessario? Su questo i giudici europei rilevano che la norma italiana non lede in modo eccessivo gli interessi legittimi delle persone collocate in quiescenza, posto che gli Stati membri dispongono di un ampio margine discrezionale nel trovare un giusto equilibrio tra i diversi interessi in gioco. Per cui passano a valutare se il legislatore italiano abbia saputo, nel caso particolare, raggiungere questo equilibrio, evidenziando la sobrietà della regola che nega l'assunzione di persone collocate in quiescenza, che hanno completato la loro vita professionale e che percepiscono un trattamento di quiescenza, al fine di promuovere la piena occupazione della popolazione attiva o di favorire l'accesso al mercato del lavoro per i più giovani.
La Corte poi amplia il ragionamento, prendendo in considerazione la possibilità di tenere conto del livello del trattamento di quiescenza di cui possono beneficiare gli interessati, onde verificare se questo possa essere causa di ulteriore discriminazione. Non fornisce risposte, però, rinviando al giudice nazionale l'onere di verificare se il divieto sia idoneo a garantire la realizzazione dell'obiettivo invocato e soddisfi effettivamente l'intento di conseguirlo in modo coerente e sistematico.