Il CommentoPersonale

Nei contratti nazionali l’arma contro il «mansionismo»

di Gianfranco Rucco

Gli enti locali sono oggi nuovamente alle prese con uno dei maggiori problemi nella gestione efficiente del personale: si tratta della tendenza al «mansionismo», cioè all’estremizzazione di un’interpretazione dell’esigibilità della prestazione lavorativa esclusivamente definita dalla storia professionale personale di ciascun dipendente, che poco si concilia con la flessibilità nell’utilizzo delle risorse umane. Se questa tendenza risultava problematica in condizioni normali oggi, a causa della situazione dovuta all’emergenza epidemiologica, essa può determinare esiti paradossali. Eppure la contrattazione collettiva nazionale di lavoro degli enti locali già dal 1999 ha previsto una disciplina dell’esigibilità delle mansioni che avrebbe potuto non dar luogo a un’interpretazione mansionistica. Infatti l’articolo 3, comma 2, del contratto nazionale del 31 marzo 1999, tuttora vigente, dispone che tutte le mansioni che vengano ascritte dal contratto collettivo all’interno delle singole categorie, «in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili».

Al riguardo è opportuno sgomberare il campo da un possibile equivoco: le parole «in quanto professionalmente equivalenti», infatti, potrebbero essere ritenute passibili di una doppia lettura, potendo essere interpretate come «poiché professionalmente equivalenti», oppure come «se professionalmente equivalenti», con ciò configurando una pista esegetica compatibile con la concezione dell’esigibilità determinata in concreto dalla storia professionale personale e non dalla valutazione effettuata in astratto dal contratto collettivo nazionale di lavoro con l’ascrizione delle mansioni a una stessa categoria di classificazione.

Va detto che la seconda ipotesi di lettura, in passato coerente con l’interpretazione giurisprudenziale dell’articolo 2103 del Codice civile, che configura l’equivalenza delle mansioni in senso concreto-sostanziale e non astratto-formale, non sembra attualmente percorribile. Infatti, della disciplina contrattuale in esame, correttamente, deve essere data oggi una interpretazione diacronica nel contesto dell’evoluzione della normativa legislativa in materia da ultimo scandita nell’articolo 52, nuovo testo, del Dlgs 165/2001, rispetto alla quale è ripetutamente intervenuta la Suprema Corte (si vedano per esempio la sentenza n.8740/2008 a sezioni unite e le n.13941/2000, 11835/2009, 18283/2010, 17396/2011, 7106/2014, 12109/2016, 7214/2016, 2011/2017) statuendo alcuni principi interpretativi estremamente rilevanti tra i quali quello ormai costante nella sua giurisprudenza per cui in materia di lavoro pubblico contrattualizzato non si applica l'articolo 2103 del Codice civile, essendo la materia disciplinata compiutamente dall’articolo 52 del Dlgs 165/2001 che assegna rilievo solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, e l’assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro.

Pertanto le mansioni possono essere considerate equivalenti per previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita. Riflettendo pacatamente su questa ricostruzione interpretativa si deve convenire che essa rappresenti, proprio nell’attuale emergenza, una notevole opportunità sia per rispondere alle accresciute esigenze di flessibilità gestionale, che per evitare soluzioni estreme cui può condurre l’interpretazione rigida dell’esigibilità, soluzioni che oltre a risultare problematiche dal punto di vista giuridico contribuiscono a dare del lavoro pubblico un’immagine poco edificante. C’è da confidare che tutti i soggetti cui è affidata la dinamica della gestione delle risorse umane comprendano e colgano questa opportunità data dalla contrattazione, perché una sua eventuale inefficacia non è certo auspicabile.