Il CommentoPersonale

Non basta tornare in ufficio per far funzionare la Pa

di Marco Carlomagno (*)

Nell’acceso dibattito sullo Smart Working che in queste settimane ha seguito l’intenzione espressa dal ministro per la Pa Renato Brunetta di tornare al lavoro in presenza, la retorica della Pa che funziona perfettamente, o quella che porta a testimonianza il lavoro di medici e infermieri durante la pandemia come paradigmatico del buon funzionamento di tutto il sistema pubblico, non porta lontano. Da tempo denunciamo le cattive prassi in uso presso molte pubbliche amministrazioni, proponendo correttivi in linea con le raccomandazioni delle organizzazioni internazionali come l’Ocse, mentre rifuggiamo le cicliche mega-riforme che restano solo sulla carta perché il più delle volte non sono pensate per dare servizi migliori a cittadini e imprese, ma solo per la vanità del proponente di turno.

È evidente che le aspirazioni a una seria analisi di ciò che non funziona nel settore pubblico sono destinate ancora una volta a rimanere deluse se non si affrontano i nodi che affliggono la Pa: il primo è che il successo del Pnrr è legato alla capacità del settore pubblico di svolgere il proprio lavoro in modo efficace; il secondo è che l’Europa chiede misure - non necessariamente normative – che accrescano la produttività del pubblico impiego.

Non si può continuare a evitare i problemi reali, a non intervenire su livelli di governo che non comunicano tra loro come nella sanità o sulle banche dati, che rimangono patrimonio privato dei singoli enti. Non si può mantenere modelli organizzativi “senza testa” nei quali le procedure pensano per tutti e non risolvono i problemi, non occuparsi di prassi organizzative antiquate, o del continuo scambio tra pezzi di amministrazione e pezzi rilevanti della politica.

L’addio allo Smart Working non è la panacea per questi mali.

Intendiamoci, lo smart working da solo non risolve alcun problema, e forse è il caso di ricordare che l’uso massiccio di questa forma alternativa di lavoro, pur presente da anni nella normativa italiana, si è reso necessario per assicurare i diritti costituzionali di cittadini e imprese, l'erogazione dei servizi pubblici e, nello stesso tempo, limitare il diffondersi della pandemia.

Tra gli aspetti positivi del passaggio massiccio allo smart working c’è l’avvio di un dibattito nel Paese sulle modalità di coordinamento e controllo, che nel settore pubblico sono ancora legate al tempo di permanenza in ufficio. Con i principi arcaici non si introducono innovazioni. Con lo Smart Working si è cominciato a parlare del passaggio dall’adempimento burocratico-formale al lavoro per obiettivi, stimolando autonomia e responsabilità di chi lavora nel settore pubblico. Entrambe virtù poco o nulla praticate nel pubblico impiego, dal livello gerarchico più basso alla dirigenza di vertice.

Passare un colpo di spugna su tutto ciò è un autogol sulla strada dell’innovazione, che dobbiamo intraprendere se non vogliamo essere marginalizzati sullo scenario economico mondiale.

Possibile che chi lamenta le perdite di produttività della Pa per lo smart working non sia sfiorato dall’idea che le organizzazioni che non sono riuscite a fornire servizi adeguati durante la pandemia funzionavano male anche prima e che in realtà questo nasconde l'incapacità organizzativa?

Bisogna mettersi seriamente al lavoro sui problemi delle Pa, iniziando dalla carenza di addetti, che ha portato in dieci anni alla perdita di 600mila posti di lavoro. Le riforme camminano sulle gambe delle persone. Se queste mancano, difficilmente funzioneranno le riforme.