Personale

Pa, 15 anni di stipendi puniscono sanità e Comuni

Dal 2005 buste paga cresciute del 21,1% (1,3% più dell’inflazione) ma salute, enti locali e scuola restano indietro

di Gianni Trovati

La Pubblica amministrazione che si presenta all’appuntamento con il rinnovo dei contratti e con l’attuazione del Patto della Sala Verde non è tutta uguale. Un metro brutale ma efficace per misurarne le differenze interne è rappresentato dagli stipendi effettivi.

Questo criterio pratico può essere utilizzato per individuare la posizione occupata dai vari rami dell’amministrazione nella gerarchia seguita dalle politiche pubbliche degli ultimi 15 anni. Vista con gli occhi di oggi, provati da un anno di crisi pandemica e concentrati sulla sfida del Recovery, è una gerarchia al contrario. Perché ha punito i settori più vitali per affrontare l’emergenza e tentare la ricostruzione: sanità, scuola ed enti locali. E ha premiato gli uffici più vicini al potere centrale, quelli della presidenza del consiglio, e i settori a cui ha lasciato libere le briglie dell’autonomia, dalle autorità indipendenti agli enti pubblici come Inps, Inail, Aci e così via.

Qualche cifra aiuta a chiarire i termini della questione. I numeri in pagina sono tratti dalle banche dati dell’Aran, l’agenzia negoziale che rappresenta il datore di lavoro pubblico. Le sue analisi non si limitano a rilevare le serie contrattuali ma guardano anche alle dinamiche reali degli stipendi, su cui fra le altre variabili influiscono la contrattazione decentrata, gli straordinari e così via.

In sintesi: dal 2005 a oggi (gli ultimi dati guardano al 2018 e sono aggiornati al 2020), lo stipendio medio del “dipendente pubblico tipo” si è attestato a 36.013 euro lordi all’anno, con un aumento nominale del 21,1% rispetto al 2005. Nello stesso periodo l’inflazione cumulata è stata del 19,8%, quindi il ritmo delle buste paga è stato piuttosto fedele a quello dei prezzi. Anche se il risultato è figlio di tre epoche diverse che hanno visto la fase finale della corsa degli anni Duemila, la lunga stasi del blocco di contratti e aumenti e la ripresa con il rinnovo relativo al 2016/2018. Ora il contratto 2019/2021, su cui le trattative si sono aperte venerdì alla Funzione pubblica, offre risorse per un aumento del 4,07%, 2,3 volte l’inflazione del periodo. Ma «nulla è più ingiusto che far parti uguali fra diseguali», spiegava Don Milani.

Perché l’ultimo quindicennio ha visto appunto orizzonti molto diversi nei vari settori della Pa. Sotto il ritmo medio di aumenti, e sotto anche all’inflazione, sono rimaste le buste paga medie in sanità, che con il loro +17,6% hanno vissuto uno fra gli andamenti più lenti di tutta la Pa (solo l’Alta formazione artistica e musicale registra cifre più modeste). Quasi analoga è la condizione di Regioni ed enti locali (+17,9%, ma non dove c’è lo Statuto speciale perché lì si arriva a un +24,4%) e dell’istruzione (+18,2% il personale tecnico dell’università; +18,4% la scuola). La storia è stata invece diversa a Palazzo Chigi, dove i 66.348 euro medi indicano un aumento del 67,5% rispetto al 2005, e negli enti pubblici non economici, con il loro robusto +46,3%. Particolare il quadro offerto dalle Authority, che non solo hanno corso (+39%) ma hanno anche privilegiato la sicurezza del tabellare (+68,9%) alle incognite dei trattamenti accessori (-29%). Una spinta a cambiare la rotta arriva ora dagli 1,3 miliardi per interventi settoriali che l’ultima manovra ha aggiunto ai 6,8 miliardi (3,9 per la Pa centrale) destinati ai rinnovi dei contratti, e che si concentrano sulle indennità per medici e infermieri. Ma la strada è lunga.

Come tutte le medie, anche queste sono il frutto di molti fattori, fra i quali non vanno trascurate le dinamiche occupazionali dei comparti. Perché anche negli anni della crisi finanziaria la sanità (ma non nelle tante Regioni sottoposte ai piani di rientro) ha seguito regole di turn over un po’ meno draconiane rispetto ad altri settori, e fra 2005 e 2018 ha perso “solo” il 5% dei propri organici contro il -24,4% degli enti territoriali, il -25,9% dei ministeri e il -34,4% degli enti pubblici non economici. Qualche nuovo ingresso in più contribuisce naturalmente a tenere più bassa la retribuzione media, che nella Pa si alimenta in genere di anzianità più che di valutazioni sulla produttività individuale e collettiva.

Ma proprio quest’ultimo aspetto determina un’altra diseguaglianza, interna ai comparti e quindi non rilevabile con i dati sugli stipendi medi. Anche qui la sintesi cruda aiuta. Si tratta di una discriminazione di fatto a danno dei più giovani. Che negli anni dei vincoli rigidi al turn over spesso non sono riusciti a entrare nella Pa, e anche quando ce l’hanno fatta si sono dovuti accontentare di prospettive congelate dal blocco di contratti e stipendi individuali: un altro fattore di cui l’attuazione del Patto dovrà tener conto se non vorrà limitarsi a un rinnovamento di facciata che può garantire la pace sociale ma non la rinascita della Pa.

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