Pa, effetto inflazione sui contratti - Il recupero costa fino a 32 miliardi
Per il triennio 2022-24 l’Ipca cumulato vola al 18,34%, contro il 9,97% calcolato lo scorso anno. L’aggancio integrale all’indice dei prezzi richiederebbe l’1,6% del Pil, ad oggi nei saldi i fondi sono a zero
Tra i frutti avvelenati dell’inflazione sui conti pubblici ce n’è uno che per ora è rimasto lontano dai fari del dibattito. Ma che si rivela, numeri del nuovo Def alla mano, potenzialmente ciclopico: si tratta del rinnovo dei contratti del pubblico impiego.
La stagione dei negoziati all’Aran è in realtà in pieno corso (la bozza). Ma riguarda ancora il 2019/2021, triennio sul quale vanno ancora chiusi i contratti dei dirigenti mentre quelli degli altri dipendenti sono stati firmati nel 2022 (con l’eccezione di Palazzo Chigi).
L’ultima tornata contrattuale, partita in ritardo perché come sempre è stata finanziata a rate dalle manovre annuali fino alla legge di bilancio 2021, ha pesato sui conti dello Stato 3,775 miliardi di euro. Il costo complessivo sui saldi di finanza pubblica però è quasi doppio, perché Regioni, enti locali, sanità e università (per il personale tecnico) devono garantire in proporzione gli stessi aumenti stipendiali previsti per le Pa statali e coprirli con i loro bilanci. Il totale del 2019/2021, quindi, è arrivato a 6,815 miliardi, a cui si sono aggiunte poi voci una tantum per aiutare la riforma degli ordinamenti professionali e un minisblocco dei fondi per il salario accessorio congelati dal 2016.
Escludendo questi interventi spot, si ha la base per misurare il costo potenziale del prossimo rinnovo, relativo a un triennio che finisce il prossimo anno. E qui arriva il colpo dell’inflazione.
La variabile chiave a cui si dovrebbero agganciare i fondi per le nuove intese è rappresentata dall’Ipca, l’indice dei prezzi al consumo armonizzato. E sul punto, il Def approvato martedì dal consiglio dei ministri parla chiaro.
Per effetto di un’inflazione rimasta al centro della scena molto più a lungo del previsto, le tabelle indicano ora di un Ipca all’8,7% nel 2022, che scende al 5,9% quest’anno e atterra al 2,8% nel 2024. Dodici mesi fa, il profilo si attestava al +5,8% per l’anno scorso, e a un più tranquillo +2,1% quest’anno che sarebbe declinato al +1,8% nel 2024. Riassunto: l’aumento Ipca incorporato nel periodo coperto dal rinnovo contrattuale raddoppia, passando dal +9,97% calcolato lo scorso anno al +18,34%. Un’ultima precisazione e poi si arriva ai numeri: l’Ipca da considerare è quello al netto degli energetici importati, le cui stime aggiornate saranno diffuse dall’Istat a giugno. Ma l’anno scorso la distanza tra i due, con l’ovvia eccezione del 2022, è stata minima. I dati aggiornati, influenzati dall’impennata degli energetici nella seconda metà dello scorso anno, vedranno uno scostamento maggiore, che però si riassorbe nel 2023 e 2024 in cui la fiamma dell’energia si trasmette agli altri prezzi.
Ecco: per recuperare un Ipca di questo tipo al rinnovo contrattuale 2022/2024 servirebbero 32 miliardi di euro, quasi 18 a carico della legge di bilancio e poco più di 14 da trovare nei bilanci autonomi di sanità, regioni, province, comuni e così via.
È ovvio che una cifra del genere, pari a 1,6 punti di Pil, è ingestibile. Perché farebbe esplodere il debito pubblico, farebbe saltare i conti degli enti territoriali e chiuderebbe gli spazi per qualsiasi altro intervento, a partire dalle assunzioni che negli enti territoriali sono misurate in base all’incidenza delle spese di personale sulle entrate correnti stabili. L’Ipca, del resto, è un riferimento utilizzato con molta flessibilità: negli anni dell’inflazione piatta i rinnovi hanno garantito un multiplo dell’indicatore (il 2019/2021 si è attestato a poco più del doppio dell’inflazione del periodo, offrendo il 4,07% contro un Ipca cumulato del 2%), e ora potrebbero offrirne una frazione. Ma il tema è politico prima che matematico, perché servirà un accordo con i dipendenti pubblici che affrontano con il contratto scaduto il periodo più caldo da decenni nella storia dei prezzi. Lo scorso anno il governo se la cavò in corsa con un miliardo (a cui gli enti autonomi hanno dovuto aggiungere 800 milioni) per l’una tantum che quest’anno produce un aumento lineare dell’1,5% (più ricco quindi per gli stipendi più alti). Difficile evitare nella nuova manovra almeno una replica di quel meccanismo, senza il quale le buste paga scenderebbero anche in termini nominali. Difficile però anche limitarsi a quello senza mettere in conto una protesta crescente dei sindacati della Pa.