Pa, riforma in mano agli enti: ecco i tre rischi da evitare
Che questo sia un momento trasformativo e potenzialmente generativo per il pubblico impiego, tra riapertura dei concorsi, rinnovi contrattuali e nuovi investimenti nel capitale umano è noto ai più. Ed è noto che non occorrono ulteriori riforme. Cosa serve, invece?
Serve non perdere questa finestra di opportunità. La sfida è degli enti, dei loro vertici gestionali, dei loro direttori del personale. Le recenti riforme hanno rinnovato gli strumenti per realizzare concorsi che, se applicati con competenza, sono già un pezzo della soluzione per attrarre anche profili nuovi. Inoltre i contratti, tolta la parte più adempimentale, mettono a disposizione degli enti nuovi strumenti per rilanciare le politiche delle risorse umane. Gli spazi di innovazione sono ampi: da un lato la riprogettazione dei modelli organizzativi a partire dai nuovi profili, fino alla regolamentazione del lavoro agile e altre forme di flessibilità del lavoro; dall’altro la possibilità di rilanciare la contrattazione integrativa e le carriere retributive.
Qualcuno dice che forse è addirittura troppo: saranno gli enti all’altezza della sfida? Sì, se si terranno lontani da tre rischi da cui la pratica e la letteratura ci mettono in guardia.
Il primo riguarda la necessità di presidiare con fermezza il confine, spesso ignorato, tra materie oggetto di contrattazione e quelle oggetto di organizzazione. Lavorare con (e non contro) i lavoratori, anche nella Pa, è un metodo che paga sempre. Ma questo non deve diventare l’alibi per sottrarsi alla responsabilità di organizzare il lavoro con professionalità e visione. Una Pa che non sa incarnare la parte datoriale è un danno anche per i lavoratori, che finiscono col perdere di vista che il senso del loro lavoro risiede nella soddisfazione dei bisogni della collettività, non di quelli dei dipendenti.
Il secondo riguarda la strategia negoziale in sede di contrattazione integrativa: non si affronta una trattativa senza una chiara idea di quali sono tutte le alternative comprese tra la soluzione ideale, su cui non bisogna temere di essere troppo ambiziosi, e il proprio «Batna» (Best Alternative to a Negotiated Agreement), ovvero la piattaforma minima sotto la quale non c’è accordo. Se si parte già al ribasso non si sta risparmiando tempo: si sta facendo un pessimo servizio all’ente e ai cittadini.
Terzo, per costruire un modello di organizzazione e una proposta di contratto ambiziosi e solidi, occorre avere una visione chiara delle sfide strategiche che l’ente è chiamato ad affrontare nel presente e soprattutto nel futuro: non si tratta di affastellare innovazioni, ma collegare ogni scelta a una visione sistemica e prospettica.
La strategia va oltre le linee di mandato o l’atto di indirizzo della politica poiché ha anche una dimensione tecnica: come cambieranno i bisogni, i modelli di produzione dei servizi nella relazione col mercato, quale il ruolo della tecnologia? E quali modelli organizzativi sono coerenti con i nuovi scenari?
Questa è una sfida per i territori, per i singoli enti e, certo, è tutta in salita laddove la capacità amministrativa è più fragile. Ma questo è anche il tempo di grandi investimenti in tecnologia, accompagnamento e formazione, per accelerare il cambiamento e non perdere l’occasione. E il fatto che al timone di questi stessi investimenti ci sia un politico, il ministro Zangrillo, con una una solida esperienza di direttore delle risorse umane può essere un punto di forza per la nuova fase.