Amministratori

Partecipate, il paradosso dei limiti per start up e incubatori

Gli investimenti in equity rientrano negli obblighi di razionalizzazione

di Stefano Pozzoli

In Italia gli incubatori e gli acceleratori di start up, secondo il report 2020 di Social Innovation Monitor, sono poco più di 200. Di questi, circa la metà sono a partecipazione pubblica. E rientrano, quindi, nelle previsioni del Testo unico sulle società partecipate, così come sono soggetti a queste disposizioni anche i loro azionisti.

Il Testo unico, in realtà, prende in considerazione questo importante ma particolare comparto dell’intervento pubblico solo all’articolo 4, al comma 8, dove si legge che «è fatta salva la possibilità di costituire, ai sensi degli articoli 2 e 3 del decreto legislativo 27 luglio 1999, n. 297, le società con caratteristiche di spin off o di start up universitari previste dall'articolo 6, comma 9, della legge 30 dicembre 2010, n. 240, nonché quelle con caratteristiche analoghe degli enti di ricerca». Una disposizione che, per come è formulata, sembra addirittura escludere la possibilità, per gli incubatori, di effettuare interventi in equity a meno che non si tratti, appunto, di spin off o start up di provenienza accademica o di origine analoga.

Gli incubatori a controllo pubblico, ancora, si trovano costretti a seguire una disciplina innaturale, e trascinano in una serie di disposizioni assurde, per il contesto in questione, i loro soci.

Gli investimenti in equity, infatti, sono da considerarsi «partecipazioni indirette» (articolo 2, comma 1, lettera g) e, come tali, rientrano negli obblighi di razionalizzazione ex articolo 20 per le amministrazioni socie. Per altro, queste partecipazioni centrano in pieno molti dei paletti immaginati al comma 2 del medesimo articolo che comportano, nella filosofia del Testo unico, la necessità di valutare le dismissione delle quote. Infatti, le start up normalmente hanno un fatturato inferiore al milione di euro, hanno più amministratori che dipendenti, sono in perdita e, per di più, spesso operano nel medesimo contesto, creando in teoria duplicazioni, visto che molti incubatori tendono alla specializzazione settoriale.

Ancora, l’acquisto di partecipazioni da parte dell’incubatore dovrebbe essere autorizzato dagli enti soci, seguendo il rigoroso procedimento stabilito dall’articolo 5 del Testo unico, ovvero l'approvazione degli organi competenti della Pa, una motivazione rafforzata, perfino una consultazione pubblica, se si tratta di enti locali, nonché l'invio della delibera a Corte dei Conti e Autorità garante della Ccncorrenza e per il mercato.

In verità, è la logica complessiva del Tusp a essere incompatibile con questo mondo, se non a prezzo di modificarne radicalmente la natura, al punto di renderne vana l'esistenza.

Il Testo unico, infatti, vuole contenere il numero delle partecipazioni pubbliche ed è naturalmente ostile al rischio di impresa. Gli incubatori, al contrario, devono creare sviluppo, trasferimento tecnologico, incoraggiare e sostenere lo spirito imprenditoriale di chi ha idee ma non strumenti finanziari e gestionali. E gli incubatori pubblici servono in particolare proprio nelle fasi più rischiose della vita di impresa, e devono poter disporre di tutti gli strumenti, anche quelli di investimento in equity, che possono risultare necessari per svolgere la loro missione.

Due approcci necessariamente diversi che, abbinati alla esigenza di un potenziamento ma anche di un ripensamento delle politiche di sostegno alle start up, rendono opportuna una riflessione e la definizione di una normativa ad hoc per il sostegno alla creazione di impresa, comparto a cui si è meritevolmente dedicato il Mise, reperendo una importante mole di risorse e avviando iniziative promettenti quali Enea Tech, senza però preoccuparsi di inquadrare normativamente il settore e non studiando come rigenerare quel patrimonio di incubatori ed acceleratori diffusi sul territorio e che possono invece rivelarsi uno strumento importante per la ripartenza del Paese.

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