Personale

Pnrr, gli organici della Pa partono da -30% ma ok alle riforme di concorsi e carriere

I risultati del primo Rapporto del Comitato scientifico per la valutazione dell’impatto delle riforme sul capitale umano pubblico, presentato oggi

di Gianni Trovati

Il fitto reticolo di interventi che nell’ultimo anno e mezzo ha sviluppato la riforma del pubblico impiego per il Pnrr è andato dritto al cuore del problema di una Pa impoverita negli organici e fossilizzata in un assetto delle competenze inadeguato. L’impostazione seguita, che ha dosato «pragmatismo e orientamento al risultato» e confronto con enti e sindacati, è quello giusto. Adesso però arriva il passaggio più complicato: quello dell’implementazione, bestia nera delle riforme italiane, resa più incerta dal fatto che il suo sviluppo si gioca nelle realtà variegate delle singole amministrazioni; per cui serve un forte «accompagnamento» centrale.

Possono essere riassunti in queste tre considerazioni i risultati principali del primo Rapporto del Comitato scientifico per la valutazione dell’impatto delle riforme sul capitale umano pubblico, che sarà presentato oggi all’inaugurazione del Polo formativo piemontese della Scuola nazionale dell’amministrazione a Santena (Torino). Compito del comitato, nominato nel marzo scorso dal ministro per la Pa Renato Brunetta e presieduto da Sergio Fabbrini, professore di scienza politica e relazioni internazionali alla Luiss ed editorialista di questo giornale, non è la valutazione sullo stato di attuazione “ufficiale” del Piano, perché a quello pensano già in molti a partire dalla Commissione Ue. L’obiettivo, più ambizioso, punta a sollecitare l’adozione di strumenti e indicatori di risultato per misurare l’attuazione effettiva delle riforme, la bestia nera di cui sopra, e individuare lacune da correggere in corso d’opera.

Il punto di partenza del primo Rapporto è nello stato dell’arte alla vigilia del Pnrr. La sintesi più efficace dei noti problemi di impoverimento degli organici è data dal confronto internazionale fra un’Italia con 54 dipendenti pubblici ogni mille abitanti contro i 69 della Spagna, i 78 della Germania e gli 83 della Francia. La forbice con gli altri big europei viaggia insomma nell’ordine del 30%. E la sclerosi riassunta in un’età media del personale volata a 50,74 anni dai 44,2 del 2001 ha una ricaduta ancora più grave: il rapporto zoppicante fra compiti e competenze, che vede nei ministeri il 26% del personale impiegato in ruoli per i quali non ha il titolo di studio adeguato, e il 9% dotato al contrario di competenze che non impiega perché superiori alla funzione assegnata.

Va ancora peggio nelle agenzie fiscali (27% di personale con curriculum inadeguato) e negli enti pubblici non economici come Inps, Inail o Aci (38%), mentre speculare è il problema negli enti territoriali dove il 24% dei dipendenti è sottoutilizzato sul piano delle competenze (e il 12% ha titoli insufficienti per il ruolo). Un disallineamento, questo, aggravato dalla femminilizzazione a metà del pubblico impiego: le donne nella Pa sono sempre di più, hanno mediamente titoli superiori ai loro colleghi, ma fanno meno carriera.

Su queste basi il trinomio riformatore costruito da Brunetta su reclutamento, carriere e formazione secondo il Comitato ha colto nel segno. L’obiettivo dell’approvazione delle riforme su cui il titolare di Palazzo Vidoni ha martellato quotidianamente collaboratori e governo è stato realizzato in pieno, anche con anticipo. Ma ora tocca all’attuazione. E per «accompagnare» al traguardo una massa di enti che viaggiano con ritmi e direzioni diverse il Rapporto chiede a Funzione pubblica di produrre un set di indicatori quali-quantitativi per tastare il polso del pubblico impiego in tempo reale, adeguare a questi indicatori il portale sulla compilazione dei Piani integrati di attività e organizzazione, rafforzare le verifiche su questi piani e mettere a stretto giro a disposizione delle amministrazioni un modello di competenze trasversali per guidare i processi di assunzione. Perché, a differenza del passato, questa volta i soldi per finanziare la riforma ci sono: e un insuccesso sarebbe quindi un fallimento doppio.

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