Personale

Pubblico impiego, i nuovi contratti costano 6,7 miliardi

Ai 3,8 miliardi degli statali si aggiungono i 2,9 previsti in sanità, regioni e comuni

di Gianni Trovati

Con l’ultima aggiunta nella legge di bilancio in arrivo il rinnovo contrattuale del pubblico impiego arriverà a costare 6,7 miliardi. Per gli statali il fondo a disposizione viene portato a 3,8 miliardi: ma poi gli aumenti previsti per la Pa centrale andranno riprodotti anche in Regioni, sanità, enti locali e università, tutte realtà che dovranno trovare nei propri bilanci autonomi i soldi per il rinnovo.

La cifra complessiva filtra dalla funzione pubblica, e risponde allo “stato di agitazione” proclamato nei giorni scorsi dai sindacati del pubblico impiego su contratti e smart working. Secondo i calcoli di Palazzo Vidoni, mettono le basi per un aumento medio da 107 euro lordi, che rappresentano il 4,15% delle busta paga di riferimento. Il tutto mentre l’indice dei prezzi (Ipca), che dovrebbe guidare la dinamica degli stipendi pubblici, si ferma per lo stesso periodo all’1,8%. E mentre, sottolineano da Funzione pubblica, «in un momento di straordinaria difficoltà per il Paese».

La risposta governativa insomma è secca, dopo che la temperatura nelle relazioni con i sindacati era salita drasticamente nei giorni scorsi con l’ultimo decreto ministeriale in cui si è fissata la regola dello Smart Working per almeno il 50% del personale impiegato in attività possibili a distanza e si è chiesto alle amministrazioni di prevedere una flessibilità oraria in entrata e in uscita per gli altri dipendenti. Un terreno delicato, che proprio per le regole contrattuali intreccia diffusamente le competenze sindacali. L’orario di lavoro resta «totalmente nella disponibilità del dialogo con le rappresentanze dei lavoratori», spiegano dalla Funzione pubblica, ma ricordano anche che il Testo unico del pubblico impiego affida a datori e dirigenti l’esclusiva nelle decisioni su «direzione e organizzazione del lavoro».

Nella pubblica amministrazione il tema è storico, e perennemente irrisolto. Ma è ovvio che l’emergenza sanitaria lo riempie di contenuti nuovi. Perché per avere una qualche efficacia il lavoro agile e la flessibilità oraria devono essere attivate in fretta. Mentre le procedure negoziali con i sindacati richiedono tempo.

Ma il cuore politico dello scontro è la battaglia sui numeri del contratto. Che va in scena in un’Italia in crisi nera, dove per molti autonomi e dipendenti privati l’incognita riguarda l’esistenza stessa di un reddito futuro più che la sua consistenza. Lo stridore è forte, quasi quanto quello provocato dallo sciopero del trasporto pubblico proclamato per oggi (in questo caso dai comitati unitari di base). Dal canto loro i dipendenti pubblici pagano invece l’eredità delle vecchie crisi: il “nuovo” contratto riguarda il 2019-2021, erede del precedente rinnovato a fine 2018 dopo dieci anni di blocco.

Il ritardo ha un ruolo nella battaglia. Perché i sindacati contestano l’inserimento nel calcolo dei fondi per la vacanza contrattuale (500 milioni l’anno per lo Stato, quasi altrettanti per gli altri comparti), che è un obbligo di legge ma anche «un anticipo dei benefici contrattuali» secondo funzione pubblica. Altri 250 milioni (sempre da raddoppiare con la Pa non statale) servono a confermare l’elemento perequativo, il mattoncino salariale in più inserito dall’ultimo contratto per il complicato incrocio con il «bonus Renzi». E 210 milioni circa finanziano la «specificità» di polizia e vigili del fuoco.

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