Rifiuti, al Sud meno servizi ma tariffa più alta: +27% rispetto al Nord
Per una famiglia tipo costo annuo da 359 euro, 282 nel settentrione
La bolletta della Tari è più efficace dei trattati di macroeconomia nello spiegare gli effetti dei mancati investimenti e delle mancate riforme. Perché traduce direttamente negli euro della tariffa i costi del disservizio, oltre a quelli del servizio: compresa l’evasione, perché anche i mancati incassi finiscono di fatto nel conto di chi si presenta puntuale al pagamento.
La conferma arriva dai numeri del Green Book che sarà presentato oggi da Utilitatis, la Fondazione di studi di Utilitalia. Il nuovo rapporto torna a fare i conti sulla tariffa rifiuti della famiglia tipo, considerando come tale un nucleo di tre persone che abita in un appartamento da 100 metri quadrati.
Il conto presentato da Utilitatis è inclemente. La famiglia-tipo paga 282 euro all’anno se vive nel Nord Italia, mentre ne deve versare 359 se abita nel Mezzogiorno: il 27% in più, anche se mediamente il servizio è di un livello drasticamente più basso rispetto a quello settentrionale dove i tassi di raccolta differenziata sono più elevati, l’utilizzo dei rifiuti per produrre energia è più diffuso e le emergenze che invadono di spazzatura le strade non sono all’ordine del giorno. Meridionale è anche il dato delle regioni del Centro-Italia, dove la tariffa annua si attesta a 334 euro pro capite in uno scenario nel quale non è indifferente il peso statistico di Roma e del Lazio. Trattandosi di medie elaborate su macroaree, è il caso di sottolineare, le cifre nascondono differenze ancora più marcate quando si guarda al dato puntuale dei singoli Comuni.
Il quadro disegnato dal Green Book dà sostanza a più di una considerazione. Primo: il costo complessivo della Tari resta tutto sommato contenuto, attestandosi allo 0,81% della spesa delle famiglie misurata dall’Istat. Ma è soprattutto mal distribuito, fino a seguire un criterio che sembra collegare in modo inversamente proporzionale il costo alla qualità della gestione. Ma il problema, ovviamente, non è nelle regole della tariffa, chiamata per legge alla «copertura integrale dei costi del servizio». Il problema sono le cause di questi costi.
Sono numerose. Ma la prima è da individuare nel deficit impiantistico. La Campania, dove si incontrano alcune fra le tariffe più alte d’Italia, deve esportare ogni anno oltre 500mila tonnellate di rifiuti che non riesce a gestire nei propri impianti. Il «ciclo dei rifiuti» non si chiude nemmeno a Roma, da dove parte una larghissima quota delle 498mila tonnellate dell’export laziale (i dati sono dell’ultimo Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica della Corte dei conti). Questi viaggi della monnezza costano. E finiscono in bolletta.
Ma questo è solo l’aspetto più evidente di un fenomeno che ha radici ancora più profonde, individuabili nel deficit di governance che ancora caratterizza il settore. Un altro dato fra i tanti offerti dal Green Book lo conferma. Dal 2006 le regole del Codice dell’Ambiente, rilanciando in modo sistematico le indicazioni del decreto Ronchi del 1997, prevede che il servizio di igiene urbana sia gestito per ambiti territoriali; ma solo in 12 regioni sono operativi gli enti di governo delle autorità d’ambito, che altrove sono quindi rimaste allo stadio di gusci vuoti o non sono state nemmeno istituite. Arriva anche da qui l’estrema frammentazione organizzativa che caratterizza il settore, ancora una volta soprattutto al Centro-Sud. E che rende asfittici sul piano economico gli affidamenti: Utilitatis ha passato in rassegna 2.092 bandi lanciati fra 2014 e 2021, scoprendo che nell’85% dei casi erano limitati a un solo Comune per una durata inferiore a 5 anni. Così il ciclo dei rifiuti è impossibile da chiudere. E la «transione ecologica» pensata dal Pnrr rischia di rivelarsi irrealizzabile.
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di Stefano Baldoni (*) – Rubrica a cura di Anutel







