Il CommentoPersonale

Smart working impossibile senza una dirigenza forte

di Francesco Verbaro

É evidente che con i Dpcm o i decreti legge non si fa un vero smart working, che aumenti la produttività come auspicato dal legislatore del 2017. L’ultimo Dpcm della Funzione pubblica lo conferma. Al di là delle deroghe e semplificazioni che conosciamo da marzo, ci sono alcune norme generali, tra cui quella che ricorda che ogni dirigente organizza il proprio ufficio assicurando, su base giornaliera, settimanale o plurisettimanale il lavoro agile almeno al 50% del personale nelle attività che possono essere svolte in questa modalità. Ogni dirigente adotta, al proprio livello, le soluzioni organizzative necessarie per lo svolgimento delle attività di formazione, favorisce la rotazione del personale in modo da assicurare un’equilibrata alternanza nello svolgimento dell’attività in modalità agile e in presenza, tenendo conto delle prescrizioni sanitarie per il distanziamento interpersonale, dei protocolli di sicurezza e dei documenti di valutazione dei rischi. Anche quando si fa riferimento all’obbligo per le Pa di organizzare e svolgere le riunioni in modalità a distanza, ci si riferisce a un’azione gestionale in capo al singolo dirigente. Qualcuno, ricordando l’articolo 5 del Dlgs 165/2001, potrebbe dire che queste precisazioni sono superflue. Ma non è vero, al punto che dopo il decreto i sindacati hanno protestato per il grande potere “riconosciuto” alla dirigenza.

Questa reazione non è una novità per chi conosce le dinamiche della Pa. Se la contrattualizzazione del rapporto di lavoro degli anni ’90 avrebbe dovuto comportare l’assegnazione del potere datoriale al dirigente, le relazioni industriali nel settore pubblico hanno mostrato altro. Nel 2009 con il Dlgs 150 il legislatore cerca di rafforzare il potere datoriale della dirigenza con una serie di “decontrattualizzazioni”, chiarendo che il dirigente è responsabile esclusivo della gestione e che nell’ambito dei poteri dei dirigenti sono ricomprese le misure sulla gestione delle risorse umane, e la direzione e organizzazione del lavoro. Precisazioni importanti dal punto di vista “politico”, ma abrogate nel 2017 dalle norme promosse dalla ministra Madia su richiesta dei sindacati. Il tentativo del 2009, fagocitato anche dalle prassi interne, ha lasciato gli uffici del personale al centro di tutto. I singoli dirigenti, anche quelli di livello generale apicale, raramente riescono a contribuire all’individuazione dei fabbisogni del personale e dei profili, né sono guidati in questo dalle direzioni del personale che mantengono spesso il monopolio sulla gestione del personale. Una patologia considerata da molti dirigenti una comodità. La gestione del personale è considerata come seccatura, inutile e rischiosa per le difficoltà nel gestire i conflitti.

A loro volta, oggi, le direzioni del personale vengono ulteriormente indebolite dai concorsi unici e dalle norme sulla contrattazione decentrata, favorendo così una relazione politico-sindacale centralistica.

Serve una dirigenza pubblica più forte e autorevole, più coraggiosa e meno condizionata. L’età media e una formazione vecchia, fondata su leggi e giurisprudenza, non aiutano. In teoria con un buona organizzazione il lavoro da remoto può essere efficiente, ma richiede una revisione dei processi, quanto mai urgente nella nostra Pa, e una digitalizzazione ancora mancante. E una dirigenza in grado di programmare il lavoro. Mancano troppe condizioni. Sarebbe necessario almeno che qualcuno a fine anno, anche a soli fini conoscitivi, riuscisse a ricavare dei dati sui tempi dei procedimenti e sui risultati (quelli veri) raggiunti, e sulle eccedenze di personale. La Pa solitamente non si accorge di ciò che le accade intorno. E non si sta rendendo conto che la pandemia, oltre all’emergenza sanitaria e a quella economica, sta accelerando processi, come la digitalizzazione che renderà la nostra amministrazione antistorica.