Standard urbanistici al vaglio della Consulta: ecco i piani che rischiano (in astratto) in Lombardia
Stima dell'impatto dovuto alla eventuale incostituzionalità che la Corte dovesse decidere in relazione all'applicazione del Dm 1444
Il disegno di legge statale per la "rigenerazione urbana" in discussione al Senato, che è stato osteggiato da più parti, anche in maniera condivisibile, contiene però almeno una previsione che sarebbe il caso di approvare celermente. Infatti, è prevista (all'articolo 13) la delega al Governo ad emanare decreti legislativi volti, fra l'altro, a modificare «la definizione degli standard da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti», abrogando «espressamente tutte le disposizioni riordinate o con essi incompatibili». Intanto, alla Commissione istituita con il decreto ministeriale 11 novembre 2021, n.441 è stato già assegnato, fra gli altri, il compito di provvedere all'elaborazione di schemi di provvedimenti «finalizzati alla riforma organica dei principi della legislazione statale in materia di pianificazione del territorio e standard urbanistici» con riguardo alla «declinazione a livello urbanistico … degli obiettivi di contenimento del consumo di suolo e di promozione della rigenerazione urbana propri delle più recenti iniziative legislative parlamentari».
I cosiddetti «standard urbanistici» sono le parti di territorio che i piani regolatori dei comuni, ossia i loro strumenti urbanistici generali, volti a disciplinare l'edificazione, devono riservare a «spazi pubblici o … alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi» in relazione «agli insediamenti residenziali e produttivi» esistenti e futuri (articolo 41-quinquies, comma 8, della legge 17 agosto 1942 n. 1150, introdotto dalla legge 6 agosto 1967, n. 765). Gli standard urbanistici sono stati definiti mediante il decreto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1444; fulcro dell'urbanistica e dell'edilizia nazionale.
In linea generale, «per spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio» il d.m. ha previsto:
- una «dotazione minima, inderogabile, di mq. 18» per gli insediamenti residenziali (articolo 3.1), anche se sul punto l'articolo 41-quinquies di inderogabilità non parla;
- una dotazione che «non può essere inferiore al 10% dell'intera superficie» prevista per «i nuovi insediamenti di carattere industriale» (articolo 5.1 n. 1);
- una dotazione almeno pari all'80% della relativa superficie lorda per i «nuovi insediamenti di carattere commerciale e direzionale» (articolo 5.1 n. 2).
Alcuni autorevoli giuristi, nel dibattito dottrinale che si era aperto sulla potestà o meno delle regioni di disciplinare gli standard urbanistici, avevano ritenuto che questo potere fosse (già) stato delegato dallo Stato alle regioni per effetto del d.P.R. 15 gennaio 1972 n. 8 (poi confermato dal d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616).Tuttavia, nel pieno della crisi globale scaturita dopo il crollo di Lehman Brothers, è stato inserito all'interno del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 (c.d. Testo unico dell'edilizia) l'articolo 2-bis, il cui primo comma prevede che le regioni:
- «possono prevedere … disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444»; e
- «possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali» (articolo inserito, per l'appunto, mediante la legge 9 agosto 2013 n. 98, di conversione del decreto legge 21 giugno 2013 n. 69, rubricato "Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia").
Queste norme (fra i «principi fondamentali e generali» della materia, secondo l'articolo 1.1 dello stesso d.P.R.) e l'articolo 103.1-bis della legge regionale della Lombardia 11 marzo 2005 n. 12 (che prevede, fra l'altro, la disapplicazione nel territorio regionale del citato d.m. 1444/68 nella parte disciplinante la definizione degli standard urbanistici) sono stati di recente rimessi alla valutazione della Corte Costituzionale da parte del Consiglio di Stato (ordinanza n.1949 del 17 marzo 2022). La rimessione ha avuto origine nell'ambito di un giudizio in cui il proprietario di un vasto insediamento industriale dismesso, posto nel Comune di Villasanta (provincia di Monza e Brianza), si è lamentato dell'illegittimità del Piano di Governo del Territorio (ossia dello strumento urbanistico generale) comunale nella parte in cui ha previsto la necessità di reperire un quantitativo di aree per servizi pubblici o attrezzature collettive in misura sensibilmente superiore ai minimi previsti dal citato d.m. 1444/68 (circa il 55% della superficie complessiva dell'area).
Il Consiglio di Stato ha infatti ritenuto rilevante la questione di legittimità costituzionale, ai fini della decisione della controversia, in quanto le norme regionali (l'articolo 103.1-bis di cui si è detto, insieme all'articolo 9.3 della medesima l.r. 12/2005 che non prevede soglie minime o massime di standard urbanistici per le zone produttive), proprio in applicazione dell'articolo 2-bis del d.P.R. n. 380/2001, hanno consentito al Comune di Villasanta di approvare un Piano «con un sovradimensionamento degli standards per la destinazione produttiva attribuita al comparto al di sopra di quanto previsto dall'articolo 5 dello stesso d.m.» 1444/68.
I Giudici di Palazzo Spada hanno altresì ritenuto la questione non manifestamente infondata per due ordini di motivi che si riportano in estrema sintesi. In primo luogo, hanno ritenuto che l'articolo 2-bis.1 del Testo unico dell'edilizia e, di conseguenza, l'articolo 103.1-bis della l.r. 12/2005 violino l'articolo 117.3 della Costituzione, nella misura in cui il legislatore nazionale non possa modificare un principio (quello secondo cui gli standard urbanistici - ossia i minimi previsti dal d.m. 1444/68 - siano tout court inderogabili), «neutralizzandolo» (per usare il verbo usato nell'ordinanza), delegando alle regioni il potere di dettare una propria disciplina in merito, anche senza limiti minimi prefissati. Tale circostanza, poi, sempre secondo i Giudici, determinando effetti potenzialmente discriminatori tra regione e regione, violerebbe anche l'articolo 3 della Costituzione.
In secondo luogo, hanno ritenuto che le citate previsioni normative contrastino anche:
- con l'articolo 117.2, lettera m), della Costituzione poiché «pur in un quadro costituzionale e legislativo caratterizzato dai principi di sussidiarietà verticale e di prossimità territoriale, in ragione dei quali la regolazione dell'assetto del territorio è rimessa quanto più possibile ai livelli di governo più vicini alle comunità di riferimento, deve ritenersi che la determinazione delle dotazioni infrastrutturali pubbliche o di interesse generale resti riservata al legislatore statale, in quanto ragionevolmente riconducibile all'ambito delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali [di cui appunto all'articolo 117.2, lettera m)] … rispetto ai quali le normative regionali potrebbero intervenire esclusivamente in senso rafforzativo»;
- con l'articolo 117.2, lettera s), della Costituzione poiché, «anche laddove si sia in presenza di una legislazione regionale esclusivamente indirizzata a introdurre una disciplina in materia di pianificazione urbanistica, e che tuttavia intercetti aspetti sensibili sotto il profilo della vivibilità del territorio quali sono quelli afferenti alla dotazione di infrastrutture e servizi per la collettività, non può non venire in rilievo la competenza esclusiva statale … [in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, di cui appunto all'articolo 117.2, lettera s)] con la correlativa possibilità per le Regioni di intervenire in deroga solo in senso migliorativo».
Avendo ora bene a mente le censure mosse dai Giudici del Consiglio di Stato (che partono dall'assunto che gli standard urbanistici sono minimi inderogabili) e il caso che gli stessi dovranno decidere (dove si contesta, invece, una richiesta eccessiva di aree a standard da parte di un comune), si fa, in realtà, fatica a comprendere come possa essere rilevante la decisione della Corte Costituzionale per la risoluzione della controversia tra il privato e l'Amministrazione comunale. Infatti, imponendo il d.m. 1444/68 delle soglie minime (e non massime), qualsiasi valore maggiore di esse sarebbe legittimo (purché ovviamente sorretto da adeguata motivazione) e, quindi, non si vede quale utilità possa derivare dall'eventuale annullamento delle norme descritte.
Nel merito, non volendo entrare nell'analisi di tematiche prettamente costituzionali, ci si limita a fare due considerazioni. La prima è che, ove mai la questione venisse ritenuta rilevante, sembra che la norma che corra maggiori rischi di incorrere in una declaratoria di incostituzionalità sia l'articolo 103.1-bis della l.r. 12/2005, perché anche qualora l'articolo 2-bis.1 del d.P.R. 380/2001 potesse essere, come pare, interpretato in modo conforme a Costituzione (poiché la deroga ai parametri del d.m. 1444/1968 potrebbe essere intesa come applicabile solo a quegli strumenti urbanistici «funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali» e, dunque, non proprio a tutti), la norma della Regione Lombardia potrebbe comunque essere dichiarata incostituzionale. Ciò posto, la seconda è che non è per nulla scontato che una dichiarazione di incostituzionalità dell'articolo 103.1-bis debba travolgere anche l'articolo 9.3 della l.r. 12/2005 (sul piano dei servizi, di riferimento per i piani attuativi, ndr) (e, forse, è anche per questo motivo che il Consiglio di Stato non ha sollevato il tema).
Infatti, come accennato, quest'ultima disposizione, che poi con riferimento agli «standard urbanistici», è quella sulla cui base sono stati redatti i Piani di Governo del Territorio dei comuni lombardi, richiede per gli insediamenti residenziali «una dotazione minima» di aree per servizi pari 18 mq/abitante, ma non fissa alcun minimo per gli insediamenti non residenziali (anche se è previsto che i comuni debbano tenerne conto), e questa circostanza non è affatto incompatibile con il d.m. 1444/1968, il quale, a propria volta, stabilisce che la dotazione per gli insediamenti residenziali sia un minimo inderogabile mentre non prevede la stessa inderogabilità per le dotazioni minime inerenti agli insediamenti di diversa tipologia.
Si ritiene quindi utile individuare quali conseguenze potrebbero derivare dall'eventuale accoglimento dei dubbi di costituzionalità rimessi dal Consiglio di Stato al vaglio della Consulta. A tal proposito, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n.8 dell'8 aprile 1963, dettando dei principi poi consolidatisi negli anni, ha stabilito che:
- «fra legge ed atto amministrativo non sussiste un rapporto di consequenzialità analogo a quello ravvisabile tra atto preparatorio e atto finale del procedimento amministrativo. L'atto amministrativo, quale manifestazione di autonomia del potere esecutivo, ha una sua vita ed una sua individualità propria e non resta direttamente travolto dalla cessazione di efficacia della legge»;
- «essendo la incostituzionalità della legge e la legittimità dell'atto amministrativo emanato in base alla legge medesima situazioni reciprocamente autonome, anche se la seconda è influenzata dalla prima, i ricorsi impostati sulla intervenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale vanno decisi dal giudice amministrativo tenendo presente che l'atto amministrativo continua ad avere vita autonoma finché non sia rimosso con uno degli strumenti a ciò idonei e che persiste l'interesse di chi ne ha chiesto l'annullamento ad ottenerlo. Tale annullamento va pronunziato sia se la questione incidentale è stata sollevata nel corso del giudizio risolvendosi in un motivo di impugnazione dell'atto, sia se pur essendo stata sollevata non sia stata ancora delibata dal giudice amministrativo al momento della intervenuta pronunzia della Corte Costituzionale, non avendo rilievo la circostanza che la fondatezza del dubbio di costituzionalità sia stata accertata nel corso del medesimo giudizio o nel corso di altro giudizio».
Pertanto, nel caso di pronuncia di incostituzionalità delle norme rimesse all'esame della Corte, gli strumenti urbanistici generali, sia lombardi che di altre regioni che dovessero aver varato norme derogatorie del d.m., emanati in forza di esse, non saranno automaticamente caducati, ma dovranno essere annullati o dal Giudice amministrativo o in via di autotutela dall'Amministrazione comunale.
Correranno quindi, astrattamente, dei rischi i piani urbanistici per i quali:
- siano ancora pendenti i termini per l'impugnazione (60 giorni per il ricorso al TAR o 120 giorni per il ricorso straordinario al Capo dello Stato), decorrenti dalla pubblicazione del piano stesso;
- siano già stati impugnati per motivi inerenti alla quantificazione degli standard;
- sia ancora pendente il «termine ragionevole» di cui all'articolo 21-nonies della legge 7 agosto 1990 n. 241 (decorrente dalla pubblicazione) per l'annullamento d'ufficio.
Più concretamente, correranno il rischio di essere annullati, anche d'ufficio, quegli strumenti urbanistici generali che non abbiano previsto un quantitativo di standard nella misura minima stabilita dal d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 o, forse, solo quelli che non abbiano previsto almeno il minimo stabilito per gli insediamenti residenziali (perché, francamente, sono solo questi che il d.m. dichiara espressamente inderogabili); ma, in quest'ultimo caso, in Lombardia il rischio lo starebbero già correndo poiché contrasterebbero già con l'articolo 9.3 della l.r. 12/2005.
Sotto un profilo pratico, però, è molto probabile che un comune che rilevi l'insufficienza degli standard previsti nel proprio strumento urbanistico generale avvii un procedimento di variante al piano, volto a garantire il soddisfacimento dei livelli minimi, piuttosto che avviare un procedimento per il suo annullamento. Non è dato sapere, anche per l'elevata complessità della verifica, quanti saranno gli strumenti urbanistici che risulteranno viziati dall'eventuale declaratoria di incostituzionalità dell'articolo 2-bis.1 del d.P.R. 380/2001 e, di conseguenza, dell'articolo 103.1-bis della l.r. lombarda 12/2005 e quanti saranno effettivamente a rischio di annullamento. Una cosa è certa però: lo sviluppo e la rigenerazione delle città italiane hanno bisogno di uno strumento decisamente più moderno rispetto al d.m. 2 aprile 1968 n. 1444.
(*) Belvedere Inzaghi & Partners - Bip
La legge Calderoli e l’eterno ritorno del residuo fiscale
di Floriana Cerniglia (*)