Il CommentoPersonale

Stipendi Pa da ripensare per le professioni digitali

di Pierluigi Mastrogiuseppe (*), Claudia Peiti (**) e Cesare Vignocchi (**)

Negli ultimi decenni, i governi di tutto il mondo si sono trovati ad affrontare, da un lato, un momento di forte sfiducia pubblica, dall’altro, importanti cambiamenti causati dall’avvento dell’era digitale. Ora la pandemia sta facendo da volano a queste istanze. Per essere efficacemente fronteggiata, la crisi richiede da parte della Pa un utilizzo innovativo di approcci strategici e strumenti digitali. Ma necessita anche di condizioni di contesto che, pur riscuotendo meno attenzione mediatica, sono imprescindibili fattori abilitanti per la transizione al digitale. Due temi sui tanti che occorre affrontare: i fabbisogni di nuove e più qualificate professioni e politiche salariali che consentano di attrarre e trattenere queste nuove professioni, in un quadro di compatibilità economica.

Sarà possibile digitalizzare senza le professionalità che sappiano avvalersi di queste tecnologie? Sarà una digitalizzazione “passiva”, dettata dall’esterno, o dovranno essere anche le professionalità interne a definire le migliori traiettorie tecnologiche? Disporre di un quadro comune per i nuovi piani dei fabbisogni di personale sembra un primo presupposto per capire come governare il ricambio dei circa 400mila dipendenti che andranno in pensione nei prossimi cinque anni. Tema collegato è l’attrattività del settore pubblico. Bisogna chiedersi se i differenziali salariali pubblico-privato offrono qualche speranza che le assunzioni non riproducano una mera sostituzione di personale amministrativo.

Il dubbio è che il grande ricambio di personale non sarà in grado di attrarre quelle competenze tecnico-professionali sempre evocate. Disponiamo ormai di parecchi lavori scientifici che ci indicano un significativo vantaggio salariale per i lavoratori pubblici rispetto a quelli privati, concentrato però nella parte bassa delle qualifiche. Un vantaggio che, tuttavia, tende ad annullarsi e a divenire negativo nella parte alta. Si tratta proprio della zona ove si trovano le nuove professionalità di cui le Pa dovrebbero dotarsi. Non dominare questo elemento per attrarre nel pubblico queste professionalità rischia di ridurre la digitalizzazione a un’evocazione retorica. O, al meglio, a un’invasione di tecnologia “aliena”. Vi è poi da definire uno schema regolatorio della dinamica retributiva dei salari pubblici. Sin dall’insediamento dell’Aran si stabilì che la dinamica retributiva del pubblico impiego seguisse criteri analoghi a quelli dei lavoratori privati.

Le ragioni furono macroeconomiche (mantenere bassa l’inflazione e governare una quota importante della spesa pubblica). L’accordo fra la Funzione pubblica e i sindacati dell’aprile 2009, scaduto nel 2013, non è stato mai attuato poiché nell’aprile 2010 fu sospesa la contrattazione nazionale. Dopo il 2016, primo anno della nuova fase di rinnovi contrattuali, la questione è stata risolta con un negoziato diretto tra Governo e sindacati, senza espliciti criteri di macro-regolazione salariale.

È pensabile continuare a governare la massa stipendiale del pubblico impiego senza un sistema regolatorio? Chi ha disegnato il precedente sistema aveva bene in mente l’obiettivo di convergenza sui livelli salariali, utilizzando nel settore pubblico i segnali di prezzo che giungevano dai mercati privati del lavoro. Per dominare questo elemento è necessario che le agenzie pubbliche si dotino di un costante monitoraggio microeconomico dei differenziali salariali pubblico-privato. La tornata contrattuale 2019-2021, con una dotazione di 6,8 miliardi capace di riconoscere incrementi del 3,8% in un triennio 2019-2021 che non darà una inflazione cumulata oltre l’1,5%, riuscirà a costruire politiche salariali che possano favorire una digitalizzazione “attiva” delle nostre Pa?