Il vaglio costituzionale della disapplicazione degli standard edilizi è l'occasione per chiarire poteri e limiti di Regioni e Comuni
Si rischia una frenata degli investimenti: nel caso di eventuale caducazione dell'articolo 2<i>-bis</i> del 380/2001 la Corte dia indicazioni su quanto deliberato finora dagli enti locali
Dirompente decisione del Consiglio di Stato, che con ordinanza n.1949 del 17 marzo 2022 ha dichiarato rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale relative all'art. 2-bis, comma 1, Dpr 380/2001, per violazione degli artt. 3 e 117, terzo comma, Cost., e conseguentemente dell'art. 103, comma 1-bis, l.r. Lombardia 11 marzo 2005 n. 12, per violazione dell'art. 117, secondo comma, lettere m) ed s), e terzo comma, Cost. La deregulation lombarda in favore dei Pgt comunali (salvo che per i limiti inderogabili sulle distanze e per gli standard minimi delle zone residenziali), ha comportato la disapplicazione delle norme del d.m. 1444/68 in tutti i territori adeguati alle disposizioni dell'articolo 26, commi 2 e 3, della l.r. 12/2005 cit., con l'ulteriore effetto di consentire allo strumento urbanistico comunale di stabilire -in modo autonomo- il fabbisogno della dotazione di standard senza tener conto dei parametri minimi statali (anche in assenza di parametri minimi regionali). La disciplina regionale sub iudice, infatti, stabilisce solamente i limiti minimi di dotazione standard per le zone residenziali, rinviando integralmente alla pianificazione locale la determinazione degli standard per tutte le altre destinazioni funzionali.
Il "casus belli"
Il Tar Lombardia Milano con sentenza n.654 del 20 aprile 2020 ha ritenuto illegittima, per difetto di motivazione, la previsione di uno standard pari al 55% della superficie di un compendio occupato da insediamenti produttivi dismessi o sottoutilizzati, per cui il vigente Pgt comunale prevede la reindustrializzazione con affiancamento di funzioni miste (commercio, terziario e servizi), notevolmente superiore al limite minimo del 10%, individuato per le aree destinate ad insediamenti industriali o assimilati dall'articolo 5 del d.m. statale. Il Comune ha invocato la legittimità della propria pianificazione, in virtù dell'art. 103, comma 1-bis l.r. 12/2005, a sua volta conforme al principio stabilito dall'art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 380/2001. Principio che in Lombardia trova applicazione nell'articolo 9, comma 3, della stessa legge regionale, il quale ha fissato il limite minimo della dotazione standard per la zona destinata a "residenza" a 18 mq per abitante, rinviando alla pianificazione locale la determinazione per tutte le altre destinazioni funzionali (purché siano garantiti tre elementi essenziali: dalla qualità delle attrezzature insediate e da insediare; fruibilità; accessibilità).
Il privato ricorrente ha criticato tale tesi affermando in primis che la "disapplicazione" del d.m. 1444/68 per effetto della legge lombarda comporterebbe la conseguenza di affidare a ciascun singolo Pgt dei Comuni (adeguati alla l.r. 12/2005), la definizione della quantità di standard applicabile per le zone diverse da quella residenziale, senza nemmeno un parametro di riferimento stabilito a livello regionale. Per il ricorrente, tale interpretazione contrasterebbe con l'articolo 2-bis del Dpr 380/2001, poiché l'attribuzione alle Regioni del potere di regolamentare la materia degli standards in modo difforme dal d.m. cit. non potrebbe essere interpretata come totale liberalizzazione (in eccesso e in riduzione) delle regole affidate all'arbitrio di ogni singola amministrazione comunale, perché contrasterebbe con il rispetto degli articoli 7, 10, 13 e dell'articolo 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150, in tema di piani urbanistici generali e di piani particolareggiati, che rendono obbligatoria la fissazione di standards, di limiti e parametri inderogabili per l'edificazione applicabili in sede di pianificazione urbanistica (disposizione che ha legittimato l'emanazione del d.m. in argomento).
L'assenza di limiti regionali
Il caso di specie, in presenza di una norma regionale di disapplicazione degli standard statali (salvo che per i limiti inderogabili sulle distanze e per gli standard minimi delle zone residenziali), con rinvio alla regolamentazione locale, ha sollevato diverse questioni di illegittimità che possono riassumersi nei seguenti punti:
1) disparità di trattamento di cittadini che realizzino lo stesso intervento edilizio in Comuni differenti, ma a cui si applica la medesima normativa regionale (articolo 3 Cost.);
2) limitazione al diritto di difesa, in assenza di un parametro legislativo e regolamentare su cui pre-definire il livello di ragionevolezza della scelta pianificatoria assunta in tema di standards (articoli 24 e 113 Cost.);
3) lesione del diritto di proprietà e del diritto di impresa, potendo il Comune prevedere uno standard fino al 99% dell'area, non incontrando limiti massimi, così determinando una situazione para-espropriativa (articoli 41 e 42 Cost.);
4) violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione in quanto, non essendo previsti nemmeno limiti minimi, il Comune potrebbe ridurre gli standards dovuti fino all'1% dell'estensione territoriale e consentire l'edificazione su tutto il resto, con enorme carico urbanistico non accompagnato dalle necessarie dotazioni di servizi, nonostante vi sia obbligo di rispettare l'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942 (articolo 97 Cost.);
5) violazione dell'articolo 117, terzo comma, Cost., in relazione ai principi generali dettati dalle leggi 1150/42 e 765/67, dei quali il d.m. 1444/68 costituisce mera attuazione.
Le argomentazioni di Palazzo Spada
Il Consiglio di Stato, con sentenza non definitiva del 20 maggio 2021 n. 3912, ha ritenuto non sufficiente il ricorso all'interpretazione «costituzionalmente orientata» dell'art. 2-bis Tue, secondo cui sarebbe consentito solo alle Regioni di prevedere disposizioni derogatorie al d.m. 1444/68 in materia di standard, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali e per conseguenza - trattandosi di deroghe a principi della legislazione statale vincolanti sul territorio nazionale ai sensi dell'art. 117, terzo comma Cost. -, in mancanza (totale o parziale) dell'esercizio di tale potere di deroga da parte delle Regioni, dovrebbe riespandersi l'applicazione dei principi statali dell'art. 41-quinquies, commi 8 e 9, legge 1150/42, come specificati dal d.m. 1444/68.
Le ragioni di tale valutazione derivano da due argomentazioni:
La prima risiede nel fatto che le norme regionali in esame (e che derivano il loro fondamento nell'art. 2-bis) integrano una «forma apparente» di esercizio del potere conferito alla Regione, visto che l'art. 103, comma 1-bis .r. 12/2005, dispone - da un lato - la generale non applicabilità del d.m. del 1968 (con l'eccezione disciplinata della materia delle distanze, che nella causa non viene in rilievo); dall'altro, la Regione esercita il potere di legiferare al «minimo», cioè prevedendo solo la dotazione minima di standards per le aree residenziali (cfr. art. 9, c. 3, l.r. cit.), al pari della misura minima già individuata dallo Stato (cfr. art. 3, primo comma, d.m. 1444/68) e, quindi, intendendo non applicabili anche le altre disposizioni nella stessa materia.
La seconda, deriva dalla compatibilità costituzionale dell'art. 2-bis Tue, rispetto alla competenza concorrente delle Regioni in materia di «governo del territorio», con specifico riferimento alla regolamentazione delle aree standards. In forza di tale tesi, la disposizione statale introdotta nel 2013, intervenendo in materia di competenza concorrente - senza porre alcun confine di principio al potere di deroga attribuito a tutte le Regioni rispetto alle preesistenti norme statali e senza assolvere alla funzione propria attribuita dalla Costituzione allo Stato di individuare i principi -, rende certamente possibili legislazioni regionali molto diverse tra di loro, ciò in contrasto con l'art. 117 (secondo e terzo comma) Cost.
Nell'ordinanza n.1949/2022 in commento, la IV Sezione del Consiglio di Stato ha pertanto ritenuto rilevante la questione di incostituzionalità (a prescindere dall'interpretazione costituzionalmente orientata) anche in forza del fatto che il d.m. 1444/68 (non fissando limiti massimi per la dotazione di standards ma solo limiti minimi), nel caso in esame non vi sarebbe una violazione bensì una deroga generalizzata autorizzata ex art. 2-bis Tue (vertendosi in tema di sovradimensionamento degli standards): conseguentemente si verificherebbe una generale impossibilità per il giudice di sindacare, in base ai parametri di legittimità, di ragionevolezza e di proporzionalità, le scelte effettuate dall'Amministrazione nell'ambito della pianificazione urbanistica, essendo venuto meno, per il tramite del meccanismo di deroga di cui all'articolo 2-bis, anche il limite minimo nella fissazione degli standard.
Conclusioni
Nonostante il Consiglio di Stato ritenga che la finalità dell'art. 2-bis Tue sia quella di autorizzare una deroga a tutti i parametri e criteri contenuti nel d.m. 1444/68, e non solo a taluni di essi (ciò che peraltro è confermato dai plurimi interventi legislativi, come quello in commento della Lombardia, con cui le Regioni si sono già avvalse di tale facoltà), l'interpretazione costituzionalmente orientata non risulta percorribile in relazione alla possibile violazione dei parametri costituzionali di cui agli articoli 3 e 117, terzo comma, con riferimento alla lesione della competenza statale concorrente in materia di «governo del territorio», nonché rispetto al secondo comma del medesimo articolo 117, lett. m) ed s) (lesione della competenza esclusiva statale in materia di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» e di «tutela dell'ambiente»).
La palla passa ora alla Consulta, con il presupposto che la valutazione di cui trattasi non ha alcuna analogia con le questioni esaminate dalla giurisprudenza della Corte costituzionale relative alle norme del medesimo d.m. 1444/68 in materia di distanze (cfr. articoli 9 e 10), ciò anche in forza della recente pronuncia n.13 del 7 febbraio 2020 (nei confronti del medesimo art. 103, comma 1-bis, l.r. 12/2005). Solo le norme in tema di distanze civilistiche sono state ritenute dalla Corte, in via di principio, inderogabili da parte della legislazione regionale, in quanto afferenti alla materia dell'ordinamento civile (ex articolo 117, secondo comma, lettera l), Cost.;) riconoscendo il potere delle Regioni, titolari della competenza concorrente nella materia «governo del territorio», di dettare discipline derogatorie in strumenti urbanistici funzionali a un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio (cfr. fra le molte, sentenze n. 50 e n. 41 del 2017, nn. 231, 185 e 178 del 2016).
L'esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio e a una razionale pianificazione urbanistica circoscrive rigorosamente la competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici e ne vincola anche le modalità di esercizio (cfr. da ultimo, sentenza n. 41 del 2017, punto 4.1. del Considerato in diritto), mentre lo stesso non si può dire per le altre norme contenute nel d.m. 1444/68, le quali prima facie attengono unicamente alla materia «governo del territorio», oggetto di competenza concorrente ai sensi del terzo comma del medesimo articolo 117 della Costituzione. Questo impone di individuare le norme di principio della legislazione statale in subiecta materia, le quali segnano il limite della competenza legislativa regionale.
La querelle non risulta marginale, non solo in forza degli ulteriori principi costituzionali, quali ad esempio quello di sussidiarietà nell'allocazione delle funzioni amministrative che -seppur temperato da differenziazione ed adeguatezza -, deve trovare applicazione anche nella materia del governo del territorio, con riconoscimento in capo ai Comuni della facoltà di adottare l'atto pianificatorio maggiormente dettagliato ed idoneo a conformare i beni giuridici sullo stesso situati (si veda in tali termini anche la sentenza della Corte Costituzionale, 16 luglio 2019 n. 179, che ha dichiarato l'illegittimità dell'ultimo periodo dell'art. 5, comma 4, della l.r. Lombardia 28 novembre 2014, n. 31, nella parte in cui non consentiva ai Comuni di apportare varianti che riducessero le previsioni e i programmi edificatori nel documento di piano vigente), ma anche e soprattutto per chiarire definitivamente non solo la potestà legislativa regionale in materia di standard, ma soprattutto la possibilità per i Comuni (in conformità a detta disciplina regionale ove presente), di determinare autonomamente il fabbisogno della dotazione di standard senza tener conto dei parametri minimi statali (ed a prescindere dalla fissazione di parametri o criteri generali a livello regionale nella disciplina regionale di settore).
Infine, si rileva l'opportunità che l'eventuale caducazione della disciplina in esame da parte della Consulta, contenga anche i principi esegetici nei confronti delle eterogenee norme locali (siano esse regionali o comunali) emanate in attuazione dell'articolo 2-bis del Dpr 380/2001, al fine di evitare enormi problematiche pratiche a danno degli interventi di trasformazione in corso ovvero un forte freno agli investimenti negli interventi di recupero urbanistico-edilizio, punta di diamante della ripresa economica post pandemia.