Urbanistica

Standard edilizi, al vaglio di costituzionalità la deroga «senza limiti» introdotta dal decreto "Fare"

Il Consiglio di Stato rimette alla Consulta l'articolo 2-<i>bis</i> del testo unico edilizia introdotto dal Dl n.69/2013

di Massimo Frontera

Al vaglio di costituzionalità la possibilità di disapplicare le norme del decreto ministeriale 1444 sugli standard, in seguito alla norma prevista del decreto legge n.69 del 2013 (cosiddetto decreto "fare") che ha aggiunto l'articolo 2-bis al testo unico edilizia. Lo ha deciso la Quarta Sezione del Consiglio di Stato con l'ordinanza di rimessione alla Consulta n.1949/2022 pubblicata il 17 marzo. La norma innovativa del Testo unico è stata concepita con l'obiettivo di superare la rigida applicazione degli standard edilizi - incluso il rispetto delle distanze minime tra gli edifici - che rappresentano una necessaria tutela nei contesti urbani di espansione edilizia ma allo stesso tempo un forte vincolo in quelli in cui si interviene sul costruito. All'epoca, il governo Letta ha voluto dare una risposta alle pressanti sollecitazioni degli operatori varando il decreto legge "fare" con molte altre norme di snellimento procedurale e normativo, sia in materia di amministrazione pubblica/urbanistica, sia in materia di gare e lavori pubblici. Nel corposo e variegato Dl n.69/2013, approvato nel giugno 2013, ha trovato spazio anche il nuovo articolo 2-bis inserito nel Dpr 380/2001, secondo il quale «ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali».

L'ORDINANZA DI RIMESSIONE DEL CONSIGLIO DI STATO N.1949/2022

Il punto controverso
Il punto controverso - va sottolineato - non è quello del rispetto dei limiti minimi sulle distanze, sul quale la Corte Costituzionale si è già pronunciata confermando l'obbligo di rispettare i principi statali, riconosciuti come «inderogabili in quanto afferenti alla materia dell'ordinamento civile», e in quanto tali di esclusiva competenza statale. In questo caso, la questione controversa resta nell'ambito del governo del territorio, materia di legislazione concorrente, che dà potere di legiferare alla Regione, nel rispetto delle norme di principio fissate dallo Stato. La Lombardia è tra le regioni che ha previsto la disapplicazione della dotazione di standard indicata nel Dm 1444 (salvo, come detto, per quanto riguarda i limiti sulle distanze), con una norma inserita nella legge regionale 12/2005 (articolo 103, comma 1-bis). Il caso oggetto del contenzioso ha messo in evidenza quello che, visto dalla prospettiva dei giudici, è apparso una sorta di vulnus, tale da mettere la norma statale a rischio di anticostituzionalità.

Il "vulnus" che apre al rischio di incostituzionalità
Il motivo, spiegano i giudici della Quarta Sezione di Palazzo Spada, è che la norma introdotta nel 2013, «intervenendo in materia di competenza concorrente senza porre alcun confine di principio al potere di deroga attribuito a tutte le regioni rispetto alle preesistenti norme statali, senza assolvere alla funzione propria attribuita dalla Costituzione allo Stato di individuare i principi, così rendendo certamente possibili legislazioni regionali molto diverse tra di loro, contrasterebbe con l'art. 117, terzo comma» della Costituzione. La disapplicazione degli standard, come operata dalla regione Lombardia, lascia infatti aperta la possibilità di prevedere un diverso valore degli standard sia inferiore ai limiti del Dm 1444, sia superiore. Di fatto, questo si traduce nella possibilità di «poter arrivare ad annullarne la previsione, in violazione dell'articolo 117, secondo comma, lett. m), della Costituzione sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Nel caso specifico, relativo a quello di un comune della Lombardia, l'appellante ha prospettato due possibilità in egual misura paradossali, in quanto il comune potrebbe in teoria ridurre lo standard all'1%, violando il precetto della buona amministrazione, sia, all'opposto, imporre uno standard del 99%, «determinando una situazione para-espropriativa».

Si torna alla legge del 1942
La prospettiva di una tale deregulation - cui corrisponde una potenziale evidente difformità di trattamento sul territorio - spinge il ragionamento dei giudici a tornare alla norma statale di riferimento, cioè la legge urbanistica del '42. «Può dunque ritenersi - si legge nell'ordinanza al punto 9.3 - posto che nella materia del governo del territorio le leggi regionali debbano rispettare le norme di principio della legislazione statale, che il nono comma dell'articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 esprima l'esigenza che le dotazioni di spazi pubblici, infrastrutture, servizi etc. rispondano a criteri di definizione omogenei su tutto il territorio nazionale, non essendo costituzionalmente ammissibile che possano esservi discrasie anche vistose tra Regione e Regione, in virtù dei diversi rapporti e parametri liberamente individuabili dalle diverse legislazioni regionali». È pertanto inaccettabile - prosegue il ragionamento dei giudici - che la modifica introdotta nel Testo Unico cancelli la «necessità di assicurare una quota minima di infrastrutture e aree per servizi pubblici che sia la stessa sull'intero territorio nazionale».

Lo stato fissi i limiti, alle regioni la scelta di rafforzarli
L'ordinanza conclude richiamando l'importanza del ruolo del legislatore nazionale. «In definitiva - si legge al punto 10.1 dell'ordinanza - pur in un quadro costituzionale e legislativo caratterizzato dai principi di sussidiarietà verticale e di prossimità territoriale, in ragione dei quali la regolazione dell'assetto del territorio è rimessa quanto più possibile ai livelli di governo più vicini alle comunità di riferimento, deve ritenersi che la determinazione delle dotazioni infrastrutturali pubbliche o di interesse generale resti riservata al legislatore statale, in quanto ragionevolmente riconducibile all'ambito delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali; in tale prospettiva, al legislatore statale spetta non soltanto individuare i principi fondamentali della materia, sibbene fissare i livelli minimi delle predette prestazioni, rispetto ai quali le normative regionali potrebbero intervenire esclusivamente in senso "rafforzativo"». «Ciò peraltro - ci tengono a chiarire i giudici - non comporta la totale obliterazione delle competenze legislative regionali, atteso che altro è la determinazione di livelli essenziali (minimi), altro la regolamentazione, tanto in termini quantitativi che qualitativi, delle dotazioni di standard, rispetto alla quale ultima – una volta garantito il rispetto della normativa statale vigente – la competenza regionale (che dovrebbe comunque ritenersi, ratione materiae, comunque di tipo concorrente) potrebbe tornare in gioco».

Le conseguenze dell'incostituzionalità
Cosa succede se la Corte Costituzionale dovesse dichiarare incostituzionale l'articolo 2-bis del 380? Nel caso specifico l'illegittimità costituzionale travolgerebbe inevitabilmente anche la norma della regione Lombardia (e cioè l'articolo 103, comma 1-bis, della legge 12/2005): «la disposizione - si legge nell'ordinanza - andrebbe a sua volta dichiarata incostituzionale in via consequenziale». La parola passa alla Consulta.

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