Sbloccati gli aumenti del canone unico patrimoniale
In piena estate, con un emendamento approvato in sede di conversione del decreto legge 95/2025, è stata introdotta una norma che consente ai Comuni di aggiornare le tariffe del canone unico patrimoniale.
Come è noto, il comma 817 dell’articolo 1 della legge 160/2019 ha stabilito il principio dell’”invarianza di gettito”, in base al quale la disciplina del canone patrimoniale di concessione, autorizzazione o esposizione pubblicitaria deve assicurare un gettito pari a quello conseguito dai canoni e dai tributi sostituiti dal canone. La norma, tuttavia, generando più di qualche incertezza, ha fatto salva la possibilità di variare il gettito attraverso la modifica delle tariffe.
Va ricordato che, con l’entrata in vigore del canone, avvenuta nel 2021, sono stati abrogati la Tosap, l’imposta comunale sulla pubblicità ed il diritto sulle pubbliche affissioni, nonché i relativi canoni e tutti gli altri canoni ricognitori o concessori previsti dalle norme di legge e dai regolamenti comunali, eccetto quelli legati all’erogazione di servizi. La giurisprudenza (e la Corte dei conti) hanno ritenuto che il legislatore abbia voluto porre un tetto massimo alla discrezionalità degli enti locali che possono sì modificare le tariffe del canone rispetto a quella standard, ma che tuttavia questa modifica deve condurre a un gettito complessivo non superiore a quello fornito dai tributi/canoni abrogati nel 2021. In proposito, il Consiglio di Stato, con la sentenza n 5632 del 26/06/2024, ha ritenuto che il gettito derivante dalle complessive entrate tributarie e corrispettive che il canone è andato a sostituire non possa essere variato in aumento rispetto al precedente gettito così individuato (comma 817). Analogamente si sono pronunciati il Tar Veneto, sentenza n. 1428/2021, confermato da Tar Lazio, sentenza n. 3248/2022, nonché più di recente il Tar Sicilia, con la sentenza n. 313/2025, la quale ha evidenziato che: “al fine di evitare possibili contrarietà con l’articolo 23 della Costituzione, conduce inevitabilmente a ritenere il dato dell'"invarianza di gettito" quale limite "bidirezionale" per le determinazioni comunali: l'Ente, infatti, ha il potere di disciplinare il canone in modo da arrivare sino a tale soglia, ma non può superarla. Diversamente opinando, infatti, la disciplina verrebbe ad essere sospettata di incostituzionalità non avendo il legislatore statale indicato parametri e limiti specifici ulteriori per delimitare il potere di determinazione "in aumento" del canone da parte dei Comuni”. Allo stesso modo si è pronunciato il Ministero dell’economia e delle finanze a Telefisco 2025.
La versione iniziale della norma faceva anche mettere in discussione la possibilità per i Comuni di differenziare le tariffe standard del canone tenendo conto di parametri, invece diffusamente utilizzati nella Tosap/Icp, quali l’impatto ambientale e urbanistico delle occupazioni/esposizioni, nonché l’incidenza sull’arredo urbano. È stato infatti osservato che, in base alla disciplina del comma 820 dell’articolo 1 della legge 160/2019, il canone per le esposizioni pubblicitarie dovesse determinarsi sulla base della sola superficie complessiva del mezzo pubblicitario, indipendentemente dal numero dei messaggi pubblicitari e dal loro tipo. A differenza di quello relativo alle occupazioni di suolo che, a mente del comma 819 della norma sopra citata, poteva essere differenziato in base alla tipologia, alle finalità ed alla zona occupata del territorio comunale. Sulla questione è intervenuta la legge di bilancio 2025 che, con l’articolo 1, comma 757, ha modificato il comma 817 dell’articolo 1 della legge 160/2019, precisando che la variazione delle tariffe fosse possibile secondo criteri di ragionevolezza e di gradualità in ragione dell'impatto ambientale e urbanistico delle occupazioni e delle esposizioni pubblicitarie oggetto del canone e della loro incidenza su elementi di arredo urbano o sui mezzi dei servizi di trasporto pubblico locale o dei servizi di mobilità sostenibile.
Tale norma, pur risolvendo un problema, non ha però intaccato la questione principale. Il gettito del canone, al quinto anno dalla sua entrata in vigore, rimaneva inchiodato a quello del gettito dei prelievi soppressi nel 2020 (anno, peraltro, particolarmente sfortunato a causa della pandemia).
L’articolo 19-bis del Dl 95/2025, come detto, approvato in sede di conversione del decreto, ha introdotto un primo spazio di manovra, consentendo ai Comuni la facoltà di incrementare il canone annualmente in base all’indice Istat dei prezzi al consumo rilevati al 31 dicembre dell’anno precedente. La norma, quindi, non introduce una rivalutazione automatica delle tariffe del canone in base alla variazione dell’inflazione, ma la mera possibilità per i Comuni di rivalutarle. A differenza di quanto accade per le tariffe del canone per le occupazioni permanenti del territorio comunale con cavi e condutture per servizi di pubblica utilità, di cui al comma 831 e per quelle dei servizi di pubblica utilità di reti e infrastrutture di comunicazione elettronica, di cui al comma 831-bis, rivalutate invece per legge annualmente in base alla variazione dell’indice Istat.
La rivalutazione del canone dovrebbe consentire ai Comuni di superare il limite di gettito anzidetto, in misura pari a quello generato dalla predetta rivalutazione. Di fatto confermando implicitamente la sussistenza del limite massimo stabilito dalla giurisprudenza.
Sarebbe opportuno chiarire la decorrenza di tale rivalutazione. Da un lato, infatti, la norma potrebbe avere la funzione di aggiornare il limite di gettito, fermo a 5 anni fa, consentendo di recuperare tutta l’inflazione registrata dal 2020 ad oggi. Tuttavia, la precisazione normativa in base alla quale la facoltà di incrementare il canone è annuale sembra invece far più correttamente ritenere che l’aggiornamento delle tariffe sia solo annuale e che, quindi, di fatto non possa che decorrere dal 2026. Infatti, pur essendo la norma entrata in vigore il 10 agosto scorso (legge di conversione n. 118/2025), trattandosi infatti di una facoltà, la stessa deve essere esercitata dall’ente in sede di delibera tariffaria che, a mente dell’articolo 53, comma 16, della legge 388/2000, deve essere approvata entro il termine previsto dalla legge statale per approvare il bilancio di previsione. E qui andrebbe chiarito il meccanismo applicativo. Infatti, ad oggi, il termine per approvare le tariffe del canone per il 2026 scade il 31/12/2025, data di scadenza dell’approvazione del bilancio di previsione, allorquando non è ancora nota la variazione dell’indice Istat dei prezzi al consumo dell’anno precedente. Salvo non voler deliberare entro il 31/12/2025 di volersi avvalere della facoltà di adeguamento delle tariffe, rimandando la quantificazione definitiva delle stesse a dopo la determinazione della variazione dell’indice anzidetto.
La rivalutazione sembra non riguardare le tariffe del canone mercatale (comma 837), tenuto conto che già la stessa norma consente un aumento delle tariffe nella misura massima del 25% della tariffa standard e che la stessa è stata inserita nel comma 817 e non anche nei commi 837 e seguenti, che disciplinano invece il canone mercatale. In relazione a quest’ultimo sarebbe opportuno chiarire a livello normativo anche la modalità di applicazione del canone a ore. Secondo il Mef (risoluzione n. 6/df/2021), il conteggio deve essere effettuato dividendo la tariffa giornaliera per 24 ore e moltiplicandola per il numero delle ore di durata del mercato, fino a 9 ore; per le occupazioni di durata superiore a 9 ore si applica la tariffa giornaliera. Tale criterio, oltre a creare un “balzo” nel caso di occupazione in un mercato fino a 9 ore rispetto a quella, analoga, in un mercato di durata ad esempio di 10 ore, sta determinando una perdita di gettito anche rilevante rispetto al passato in molti Comuni (dove la durata dei mercati giornalieri è di norma inferiore a 9 ore).
(*) Vice presidente Anutel
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