Il CommentoAmministratori

Per fare la spending review bisogna investire in giovani manager pubblici

di Gustavo Piga

Era la primavera del 2021 quando il governo Draghi programmava per il Paese – per il tramite del Documento di economia e finanza, Def – una crescita complessiva nel biennio 2022-2023 del 7,4 per cento. Tale crescita fu sostanzialmente confermata sei mesi dopo nella Nadef del 2021, portandola allo 7,5 per cento. Essa veniva accompagnata dal rapporto deficit-Pil del 5,9% per il 2022 e del 4,3% per il 2023.

La recente nota di aggiornamento del Def del governo Meloni parte dalla presa d’atto che tale crescita inizialmente immaginata dal suo predecessore non è stata altro che un miraggio. A essere ottimisti, seguendo le ipotesi presentate in conferenza stampa dal ministro Giorgetti, la crescita del biennio si arresterà alla metà di quanto programmato dal ministro Franco: 3,7% nel 2022 più 0,6% nel 2023. È appunto una visione rosea, visto che il Fondo monetario internazionale prevede per l’Italia, per il 2023, una recessione di 0,2% in meno di Pil. Se così sarà, dall’inizio del Covid alla fine del 2023 l’Italia crescerà dell’1,7% in meno dell’area dell’euro, un fenomeno di riduzione relativa di peso economico (e politico) nell’area della valuta comune che ha caratterizzato l’andamento del Pil durante tutti i governi italiani che si sono succeduti nel XXI secolo, nessuno escluso.

Un tale drammatico ridimensionamento delle nostre aspirazioni di crescita non è da attribuire ai soli effetti della guerra e del caro energetico, ma anche alle fallimentari previsioni di messa a terra del Pnrr, a cui sono venuti a mancare investimenti per almeno l’1% del Pil a causa del disinteresse prestato all’esigenza di farsi trovare pronti con una squadra di stazioni appaltanti all’altezza dell’indubbiamente difficile compito.

Viene ora da chiedersi se, ereditato un tale contesto, il governo Meloni abbia fatto – con la Nadef presentata in questi giorni – tutto quanto fosse possibile per non ripetere i fallimenti dei governi degli ultimi venti anni. «Non si poteva fare diversamente» è stata l’espressione usata del presidente del Consiglio al riguardo. È così? È necessario affrontare due temi per rispondere pienamente a questa domanda.

Era impossibile fare diversamente riguardo ai valori del deficit-Pil prescelti? Intanto va detto che bene ha fatto il governo Meloni a ristabilire, come avrebbe dovuto fare ben prima il governo Draghi, il deficit-Pil 2022 al 5,6% come programmato, con uno stanziamento di 9,5 miliardi per il caro bollette. Va poi ricordato come il nuovo governo abbia confermato i dettami del Fiscal compact, prevedendo in 3 anni un rientro del deficit al 3% del Pil. È difficile pensare che un esecutivo così tanto sotto i riflettori europei potesse esimersi da una tale scelta. Eppure sappiamo bene come vi siano svariati modi di arrivare al 3% a 3 anni; in particolare, il deficit del 2023 poteva essere ben diverso da quello prescelto, il 4,5% del Pil, in diminuzione dell’1,1% rispetto al livello del 2022. Ciò è tanto più vero se notiamo come la posizione fiscale dell’attuale governo – deficit di 5,6% e 4,5% di Pil nel biennio 2022-23 – è pressoché la stessa di quella prevista per gli stessi anni dal governo Draghi nel 2021, con deficit di 5,9% e 4,3% di Pil. Con una sola, macroscopica, differenza: la crescita allora prevista per il biennio era dell’7,5% mentre la crescita ora prevista è (a seconda delle stime sul 2023) quasi o più della metà per lo stesso periodo. Sarebbe stato possibile chiedere all’Europa, sulla base di questo ragionamento, un deficit su Pil ben maggiore per evitare la recessione del 2023, rendendo la politica fiscale non austera ma espansiva, possibilmente con maggiori investimenti pubblici? Crediamo di sì. E a poco vale la rassicurazione del ministro Giorgetti che nel caso in cui i rischi di recessione dovessero materializzarsi il governo «sarà pronto ad affrontarli»: la politica economica non serve anche a “prevenire” tali (molto probabili) rischi?

C’è una seconda questione che tuttavia non va tralasciata, ed è quella dell’annunciata spending review, con tagli (piuttosto ridotti, di 800 milioni, ovvero di meno di 0,05% di Pil) alle spese ministeriali. Meloni ha sottolineato come il Consiglio dei ministri si è mostrato coeso su questa mossa: «Mi aspettavo una discussione animata, ma non c’è stata». Ed è un peccato, perché effettivamente anche qui si poteva fare diversamente. La spending review fallimentare dei precedenti governi del XXI secolo (addirittura inesistente per gli ultimi due) ci ha insegnato che tagli lasciati ai singoli ministeri, senza una cabina di regia degli sprechi e una riforma organizzativa delle stazioni appaltanti, sono semplicemente un’occasione persa. L’evidenza empirica a nostra disposizione ci dice che gli sprechi in Italia sono immensi (attorno al 3% del Pil, 60 miliardi l’anno, altro che 800 milioni!), sono soprattutto dovuti a inefficienza e incompetenza e solo in misura minore a corruzione. Ciò significa due cose. Primo, che il governo, rinunciando a una spending review seria, rinuncia a trovare quelle risorse che permetterebbero allo stesso di incidere in maniera significativa sulla ripresa dell’economia senza dover aumentare ulteriormente il deficit, un vero e proprio atto di masochismo. Secondo, che qualsiasi spending review seria passa per maggiori, e non minori, spese per attrarre (soprattutto presso stazioni appaltanti appropriatamente riorganizzate territorialmente) personale giovane e competente che permetterebbe di eliminare quegli sprechi. I britannici lo chiamano spend to save, spendere (in risorse umane) per risparmiare (in sprechi). Continuare a fare quanto fatto dai nostri precedenti governi: save to spend, badly, risparmiare (sulle risorse umane) per spendere male, è un altro atto di ingiustificato masochismo.

Questo governo ha la forza e il sostegno per fare meglio dei precedenti: è bene farlo subito, non c’è più tempo.