Il CommentoAmministratori

Società, sui compensi il Mef non può aspettare ancora

di Harald Bonura e Davide Di Russo

Anche per le società a controllo pubblico si avvicinano le assemblee di approvazione dei bilanci che saranno chiamate al rinnovo degli organi societari.

Ma a oltre cinque anni dall’introduzione del Testo unico sulle partecipate, manca ancora il decreto previsto dall’articolo 11, comma 6 che dovrebbe fissare i parametri per il compenso degli organi delle società, sulla base di indicatori qualitativi e quantitativi.

Il ritardo è incomprensibile, considerato che la bozza del Dm è pronta da tempo, tant’è che era già circolata informalmente un anno fa e questo giornale aveva avuto modo di commentarla.

Anche per questa tornata di rinnovi, dunque, c’è il rischio di dover fare i conti con il regime transitorio del successivo comma 7, che rinviando all’articolo 4, comma 4 del Dl 95/2012 impone alle società di rimanere sotto il limite dell'80% del «costo» sostenuto per questi organi nel 2013.

Al di là delle incertezze interpretative (comunque non trascurabili), il rischio maggiore, che il legislatore sembra sottovalutare, è che società di elevato rilievo strategico per le Pa (si tratta soprattutto di società incaricate di svolgere servizi di interesse generale o servizi strumentali agli enti soci) non siano in condizione di attrarre adeguate professionalità e competenze per coprire i posti di comando.

Appare francamente paradossale che alle soglie di una fase economica che guerra permettendo si preannuncia espansiva, sotto la spinta dei fondi del Pnrr nella cui gestione sono coinvolte anche le società pubbliche in qualità di soggetti attuatori, queste aziende siano ancora limitate da vincoli pensati ormai dieci anni fa, in un contesto del tutto diverso (l’articolo 4 del Dl 95/2012 è norma di spending rewiew, introdotta per arginare la spesa e garantire il rispetto del Patto di stabilità oggi sospeso).

Considerazioni analoghe valgono per gli organi di controllo: è fondamentale, proprio per la delicatezza dell’attuale frangente (e per l’assoluto rilievo dell’interesse pubblico al corretto impiego delle risorse comunitarie) che le società pubbliche possano contare su sindaci e revisori di elevata competenza, così da assicurare effettività a quello che è il primo presidio di legalità in seno agli organismi societari.

Il buon senso, prima ancora che il principio di buon andamento della pubblica amministrazione (articolo 97 della Costituzione), dovrebbe suggerire di licenziare in tempi brevissimi il decreto compensi, in modo che possa trovare applicazione già nei prossimi rinnovi; e che i compensi siano congrui e adeguati al mercato, per consentire da subito alle società pubbliche di operare ad armi pari nei contesti di riferimento, e quindi di poter offrire compensi in grado di attrarre professionisti in possesso delle competenze necessarie a gestire il nevralgico triennio alle porte.

A meno che, ovviamente, non si ritenga ancora oggi che il compenso degli organi di amministrazione e di controllo delle società a controllo pubblico è un mero costo, da abbattere in modo lineare, a prescindere dalla strategicità della società e dai suoi risultati.

Nel qual caso occorrerebbe domandarsi che senso abbia consentire all’amministrazione pubblica di perseguire le finalità istituzionali attraverso il modulo societario e, nel contempo, zavorrarlo di vincoli anacronistici che lo condannano a inefficienza e inadeguatezza.