I temi di NT+L'ufficio del personale

Titoli nei concorsi, sanzioni disciplinari, malattia e mansioni superiori

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di Gianluca Bertagna

La rubrica settimanale con la sintesi delle novità normative e applicative sulla gestione del personale nelle Pa

Valutazione dei titoli di studio nei concorsi

Il Tar Lazio-Roma, sezione IV-ter, con la sentenza del 23 maggio 2024, n. 10438 ha stabilito che quando il bando di concorso prevede, per la valutazione dei titoli culturali, l’attribuzione di 1 punto (con un massimo di 2, per la categoria), con la formula «1 punto per ogni laurea, diploma di laurea, laurea specialistica, laurea magistrale …», per il candidato che abbia conseguito la laurea triennale e, successivamente, quella magistrale, occorre applicare letteralmente quanto previsto dalla lex specialis e, quindi, assegnare due punti.
Non è legittimo il comportamento della commissione giudicatrice che introduca il criterio (contrario al bando) per cui quando la laurea magistrale sia la naturale prosecuzione di quella triennale si deve considerare un unico titolo (con attribuzione di 1 punto).

Sanzione disciplinare irrogata dal superiore gerarchico

È legittima la sanzione disciplinare irrogata dal dirigente/responsabile di servizio cui sia subordinato il dipendente, anche per le fattispecie di competenza dell’ufficio per i procedimenti disciplinari, quando sia stato delegato dal segretario comunale (responsabile dell’Upd) per detta funzione e il delegato sia, anch’egli, componente del medesimo ufficio. È questa la sintesi dell’ ordinanza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, 20 maggio 2024, n. 14003 nella quale si riconosce la legittimità della delega da parte del dirigente responsabile dell’ufficio per i procedimenti disciplinari ad altro dirigente dell’ufficio stesso, anche per una specifica fase, in quanto rientrante nei poteri attribuiti dalla legge ai dirigenti degli uffici dirigenziali generali in forza dell’articolo 17, comma 1, lettera c), del Dlgs n. 165/2001 (Corte di Cassazione n. 24828/2015) e va sottolineata l’inconfigurabilità di limiti alla stessa, non essendo posto alcun obbligo di astensione nell’ipotesi in cui la conduzione del procedimento disciplinare sia affidata a un soggetto che, contemporaneamente, rivesta anche il ruolo di responsabile della struttura presso cui opera l’incolpato.

Attività sportiva (diversa da quella prescritta dai medici) durante la malattia

È responsabile del danno erariale (per le retribuzioni indebitamente percepite) il pubblico dipendente che durante il periodo di assenza per malattia pratichi attività sportiva (nello specifico, tennistica) che ha comportato, quanto meno, il mancato rispetto dell’obbligo di recuperare al meglio e di non aggravare il proprio stato di salute durante il periodo di malattia/convalescenza o di assenza comunque occasionata da infermità, al fine di assicurare il rientro in servizio nei tempi più rapidi e nelle migliori condizioni fisiche possibili.

È quanto ha stabilito la Corte dei Conti, III sezione giurisdizionale centrale d’Appello, nella sentenza n. 134/2024, depositata l’8 maggio 2024. Secondo la Corte, la condotta del dipendente si appalesa, in sé e per sé, come violativa dei doveri di servizio e degli obblighi di correttezza e di leale cooperazione con il proprio datore di lavoro, finalizzati, comunque, ad assicurare l’osservanza del riposo domiciliare prescritto dai sanitari, per favorire un pronto e solerte recupero fisico e, conseguentemente, consentire di riprendere l’attività lavorativa. Nelle certificazioni mediche prodotte in giudizio si riscontrava soltanto l’indicazione di praticare ginnastica in acqua/nuoto, oltre a ripetute prescrizioni di riposo e cure mediche.

Svolgimento di fatto di mansioni superiori

Il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscere nella misura indicata nell’articolo 52, comma 5, del Dlgs 165/2001, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio previsto dall’articolo 36 della Costituzione (Corte di Cassazione 19812/2016, 18808/2013). Il diritto va escluso solo qualora l’espletamento sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’ente, oppure quando sia il frutto di una fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente, o in ipotesi in cui si riscontri una situazione di illiceità per contrasto con norme fondamentali o generali o con principi basilari pubblicistici dell’ordinamento. Lo ha affermato la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nell’ordinanza 22 maggio 2024, n. 14293.