Il CommentoPersonale

Per lo smart working l’organizzazione viene prima della dotazione tecnologica

di Alessandro Bacci e Raphael Frieri

In tanti fanno menzione dello smart working confondendolo con il lavoro da casa o home working, quanto invece più propriamente è assimilabile a un lavoro ubiquo o work from anywhere, organizzato per obiettivi e non controllando lo scambio fra ore in presenza e salario. Lo smart working, al centro anche del Patto firmato la scorsa settimana dal premier Draghi e dal ministro della Pa Brunetta con i sindacati, è una delle punte dell’iceberg chiamato «trasformazione digitale»: un processo profondo di revisione dell’organizzazione che interessa persone, macrostruttura, comunicazione e, solo in ultimo, tecnologia, aumentando il valore aggiunto per il cliente esterno. Dunque, intendendo per smart working il working from anywhere, non ha senso digitalizzare le cose inutili come il badge, piuttosto occorre improntare una programmazione a breve termine integrata nell’architettura cloud che consenta di accedere in sicurezza a tutti i gestionali necessari al dipendente.

La storia dell’home working e del working from anywhere ha origine nel 1973 quando lo shock petrolifero costrinse alcune corporation a ripensare il pendolarismo. Recentissime ricerche nord americane (Choudhury HBR 2020) hanno messo in luce come l’introduzione consapevole del working from anywhere abbia incrementato la produttività anche in tempi di pandemia, traducendosi in ulteriori incrementi nelle fasi successive al lockdown. Ciò grazie alla maggiore autonomia dei dipendenti, al maggior benessere organizzativo dovuto sia alla migliore collaborazione sia alla conciliazione dei tempi di vita. A conclusioni simili giunge uno studio di Banca di Italia svolto per il solo settore privato, ove si correla la capacità di cogliere l’occasione della trasformazione digitale direttamente alla retribuzione media, alla quota di donne impiegate, all’adozione di una tecnologia cloud; mentre risulta inversamente proporzionale al’età dei dirigenti. Un altro studio olandese del 2018 (De Vos e altri) ha concluso che grazie al telecommuting, quindi smart working o telelavoro che sia, a parità di salari e per tempi superiori alle otto ore settimanali, è possibile allargare la propria area di reclutamento del 25 per cento.

Ci aspettano meravigliosi anni di opportunità, oppure di enormi fallimenti dovuti alla sottovalutazione di fattori fondamentali: a cominciare dalla consapevolezza che la pancia dell’iceberg è costituita dai dati della propria organizzazione, dai modi di usare i Big Data, che richiedono ordini di grandezza impensabili per la Pa di oggi, grazie all’intelligenza artificiale e all’architettura cloud. Ma per comprendere la trasformazione digitale servono nuove competenze matematiche; una nuova leadership orizzontale fondata sulla programmazione collaborativa e una cultura che incoraggi la sobrietà e la sottile formalizzazione dei processi, una spinta al cambiamento basata sull’autonomia e sulla responsabilizzazione delle persone che lavorano nella Pa, motivate a orientarsi al cliente (famiglie e imprese) al di là dei processi burocratici. Una rivoluzione sobria che può consentire alla Pa, come in generale al settore dei servizi, maggiore produttività, riduzione dei costi di funzionamento, aumento del valore aggiunto del cliente e miglioramento dell’impatto ambientale.

L'accelerazione impressa dal Covid potrebbe essere l’occasione per realizzare smart city, dove sono smart le aziende pubbliche e private, dove la sharing economy è incoraggiata sia per il consumo di cibo sia per l’uso dei mezzi per spostarsi, sia alla condivisione di una scrivania che di una tecnologia in cloud.