Fisco e contabilità

Il costo dei materiali frena il Pnrr: speso solo il 50% dei fondi previsti

Quest’anno si arriverà a 15 miliardi invece dei 29,4 ipotizzati ad aprile, sul 2020-22 uscite a quasi 21 miliardi contro i 41,4 del programma iniziale e i 33,7 indicati nel Def di aprile

di Gianni Trovati

Secondo i piani originari l’Italia avrebbe dovuto spendere entro la fine di quest’anno 41,4 miliardi in interventi del Pnrr. Il calendario era stato rivisto nel Def di aprile, tagliando la spesa a 33,7 miliardi, 7,7 sotto la prima previsione. Ora la Nadef rifà ancora i calcoli, e ferma il conto di fine 2022 a 20,5 miliardi: 13,2 in meno rispetto all’ipotesi di aprile e 20,9 sotto quella iniziale.

Si può misurare in queste cifre l’impatto concreto dei due problemi principali che pesano sull’attuazione effettiva delle misure di spesa previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. A indicarli è il ministro dell’Economia Daniele Franco nella premessa del documento, quando attribuisce «il ritardato avvio di alcuni progetti» all’«impennata dei costi delle opere pubbliche» e ai «tempi di adattamento alle procedure innovative del Pnrr». In sintesi: a rallentare la macchina rispetto agli ambiziosi obiettivi iniziali è il caro-materiali che fa saltare i quadri economici degli appalti e la difficoltà della Pubblica amministrazione ad adeguare il proprio passo ai ritmi imposti dal Piano.

Al termine del secondo anno di vita del Pnrr la spesa si ferma quindi al 49,5% della previsione iniziale, con un risultato che sarebbe stato ancora più netto se nel conto non entrasse una piccola parte di spese già realizzate nel 2020 e coperte ex post dal Piano come previsto dal regolamento. Un taglio così profondo non ha fin qui nessun effetto sul raggiungimento degli obiettivi (milestones e target) da raggiungere per ricevere le rate del finanziamento comunitario, come dimostra il via libera alla seconda tranche deciso nei giorni scorsi dalla commissione Ue e l’accelerazione impressa dal governo Draghi anche sugli obiettivi della terza rata (Sole 24 Ore di martedì). Questa relativa indipendenza dei due fenomeni si spiega con la configurazione degli obiettivi del cronoprogramma, che soprattutto nella prima parte del Piano si concentrano sulla costruzione della cornice fatta di riforme, norme e avvio di bandi che rappresenta la premessa della spesa. Il meccanismo del fondo rotativo che gestisce le risorse della Recovery and Resilience Facility evita poi che la revisione dei piani di spesa incida sulla finanza pubblica.

A cambiare, però, è il dato più sostanziale atteso dal Pnrr, cioè l’impatto sulla crescita. Che con questa partenza rallentata si modifica nel tempo: quest’anno, per esempio, avremmo dovuto spendere 29,4 miliardi ma ci siamo fermati a 15, il 51% della cifra calcolata ad aprile.

Nei piani rivisti dal governo, la spinta mancata fin qui dovrebbe arrivare nei prossimi anni. A partire da un 2023 che mette ora in calendario una spesa da 40,9 miliardi, vale a dire 25,9 in più di quest’anno. Da qui, spiega sempre la Nadef, dovrebbe venire uno 0,3% di Pil in più, in una crescita annua che il Mef aveva previsto al +0,8% e poi è stata ribassata al +0,6% anche per ottenere la validazione dell’Upb arrivata il 23 settembre. La corsa dovrebbe poi proseguire nel 2024-25, a botte di oltre 40 miliardi all’anno, per chiudersi con 35,9 miliardi di spesa nell’anno finale del Piano.

La crescita aggiuntiva da Pnrr, che pure punta ad aumentare strutturalmente il Pil potenziale del Paese, è un bene ancora più prezioso nella prossima fase di caduta globale dell’economia.

I fondi per compensare il caro materiali e le misure continue per supportare le Pa, fino all’attribuzione ad Invitalia del ruolo di regia per gli enti locali nel decreto Aiuti-ter, offrono una prima risposta. Ammesso, e non concesso, che basti.

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