Amministratori

Recesso dell'ente dalla società di servizio idrico integrato, la rete non è cedibile perché fa parte del demanio comunale

L'operazione secondo le regole del Tusp si può fare solo nella revisione straordinaria

di Stefano Pozzoli

Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 6862/2022, torna incidentalmente su un tema assai spinoso, ovvero quello della possibilità di un ente locale di recedere da una società pubblica, in questo caso di servizio idrico integrato. In realtà la sentenza verte solo sulla legittimità, per un Comune, di decidere di dismettere la sua quota nell'ambito della razionalizzazione periodica delle partecipazioni, ma è altresì ovvio che, trattandosi nel caso di specie di società in house, tale facoltà resterebbe lettera morta ove il Comune non potesse fare ricorso a quella forma anomala di recesso prevista dall'articolo 24, comma 5 del Tusp, per altro ora sospesa, fino al 31 dicembre 2022, nel caso di società mediamente in utile.

Si ricorderà che l'articolo 24, sulla revisione straordinaria, prevede che, ove il Comune non abbia ceduto la partecipazione nei 12 mesi successivi al piano, abbia diritto a farsi liquidare la quota dalla società stessa. Il Tusp, pudicamente, consapevole della natura particolare che attribuisce all'istituto il Codice civile, non parla mai di recesso, ma fa esplicitamente rinvio alle disposizioni civilistiche in merito per la procedura di valorizzazione e di monetizzazione della quota. Questo, però, può comunque essere giustificato, una tantum, in termini di interessi pubblici prevalenti, ovvero per considerazioni di ordine pubblico economico che portano a ritenere la riduzione delle partecipazioni pubbliche una necessità del Sistema Paese.

La prima questione da affrontare, però, è se tale "diritto", come noi riteniamo, valga solo per la revisione straordinaria, o se si estende anche alla razionalizzazione periodica. Il dubbio nasce dal fatto che l'articolo 20, comma 7 è molto ambiguo. Infatti, da una parte introduce come conseguenza della mancata del piano, una sanzione amministrativa (da un minimo di 5.000 euro a un massimo di 500.000) e, dall'altra, ma dopo un punto, precisa che «Si applica l'articolo 24, commi 5, 6, 7, 8 e 9». Da qui l'incertezza se l'applicazione dell'articolo 24, comma 5 sia solo una conseguenza sanzionatoria o meno, anche se la interpretazione letterale del comma farebbe propendere per la prima strada. Nel merito è chiaro che immaginare il recesso da una società anche solo come "punizione" è illogico, ma tanto più lo sarebbe immaginare di attribuire, permanentemente e al di fuori del quadro sanzionatorio, ai Comuni il diritto di uscire quando vogliano da una società, creando così incertezza negli altri soci e rischi di continuità aziendale, ovvero esattamente quanto le disposizioni civilistiche vogliono evitare.

Nel caso delle società del SII, per altro, si pone anche un'altra questione, molto delicata. Come è noto in tante di esse i Comuni sono diventati soci non apportandovi risorse finanziarie, ma conferendovi, in base all'articolo 113, comma 13 del Tuel, «la proprietà delle reti, degli impianti, e delle altre dotazioni patrimoniali a società a capitale interamente pubblico, che è incedibile». La rete idrica è, appunto, incedibile perché fa parte e resta demanio comunale.

A nostro giudizio, dunque, ammessa la legittimità, come precisa il Consiglio di Stato, che ha un socio di dismettere, se lo ritiene, la sua partecipazione, da una parte occorre comunque tenere conto delle politiche di Ambito Territoriale Ottimale; dall'altra del fatto che il demanio comunale deve restare tale. In altre parole se un Comune esce dalla società, che sia vendendo la sua quota che per il tramite di un recesso, stante che i beni demaniali non possono che essere del Comune, deve a lui essere retrocesso, ovviamente a un valore di stima, anche il proprio "pezzo" di rete idrica. Non può, in sostanza monetizzare una quota eludendo, in sostanza, il principio della demanialità, ovvero "vendendo" il suo demanio idrico.

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