Appalti

A rallentare gli appalti sono i vincoli, non i sindaci

Sempre più spesso si attribuisce la mancata esecuzione di opere pubbliche già finanziate all’incapacità delle amministrazioni appaltanti, soprattutto i Comuni, di progettare, gestire e controllare l’intero ciclo di affidamento dei lavori. Un grave pregiudizio verso gli stessi Comuni, perché il fattore determinante del rallentamento deriva invece dalla farraginosità di norme e adempimenti, e dalla marea di contenziosi consentiti dalla legge.

Quando il presidente dell’Anac Cantone dice: «Continuo a pensare che dare maggiore discrezionalità alla pubblica amministrazione sia una scelta giusta, da gestire con le risorse e i tempi giusti» (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 4 gennaio 2018), non fa altro che prendere atto di un fatto certo e assodato, dal suo punto di vista privilegiato e qualificato. Abbiamo stretto le stazioni appaltanti, e in particolare i Comuni, in una morsa giuridica che lascia ben pochi spazi di movimento e che ostacola la realizzazione di quegli interventi che dovrebbero rispondere alla loro esigenze effettive. Inoltre, l’obbligo di aggregazione e qualificazione delle stazioni appaltanti, pur se condivisibile come Anci ha sempre fatto, se non rientra in una logica che non mortifichi le esperienze e non valorizzi le Centrali uniche di committenza comunali, sposterà ancor di più l’iter procedurale dai Comuni ad altri soggetti privi di interesse diretto, rallentando sempre più la realizzazione delle opere. Sono circa cinquemila i Comuni che, dal 2014 ad oggi, si sono costituiti in stazioni uniche appaltanti rispondendo alla norma che prevede l’obbligo di aggregazione, perché ora non dovremmo dar loro la possibilità di crescere autonomamente?

Ritengo che ciò che blocca il sistema degli affidamenti è soprattutto l’insieme di procedure, spesso incomprensibili, che intrecciano le difficoltà dei numerosi enti chiamati ad esprimere pareri e autorizzazioni (Regioni, Province, Soprintendenze, Autorità di Bacino, ecc.) in una rete inestricabile di atti costantemente sotto la spada di Damocle di contenziosi e pronunce a volte in contrasto tra loro.

Il calo di numero di gare bandite nel 2016 pari al 60% (dati Ance) non può essere tutta colpa dell’improvvisa epidemia di “incapacità” nelle pubbliche amministrazioni, tra cui i Comuni, quanto piuttosto di un quadro giuridico di riferimento ancora non definito, di una serie di disposizioni primarie ancora inattuabili, senza ulteriori provvedimenti attuativi.

È necessaria una nuova impostazione politica del sistema “lavori pubblici”, che si ponga l’obiettivo di compattare le procedure autorizzative, di ridurre i cosiddetti tempi di attraversamento (necessari per passare da una fase alla successiva, che incidono per il 42% sui ritardi nella consegna delle opere), di semplificare le procedure di affidamento dei lavori senza rinunciare a trasparenza e legalità, di agevolare il flusso delle risorse dagli enti erogatori alle stazioni appaltanti.

L’obiettivo deve essere di mirare alla qualità del progetto e delle opere e poi anche quello di rendere immediatamente cantierabili tutte quelle che costituiscono priorità assolute, come la sicurezza del territorio e delle costruzioni, il completamento e l’adeguamento della rete infrastrutturale, il recupero e la valorizzazione dell’enorme patrimonio storico-culturale che possediamo, ma che non possiamo permetterci di perdere per sempre, lasciandolo in balìa degli eventi naturali.

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