Annullamento della Dia sempre possibile se si attesta il falso
Il Consiglio di Stato: la tempestività della Pa è legata alla scoperta dei fatti; ritiro in autotutela anche senza esporre ragioni di pubblico interesse, se c'è falsa rappresentazione della realtà
Un contenzioso in un comune pugliese ha consentito al Consiglio di Stato di affermare i principi e limiti che attengono alla possibilità da parte dell'ente locale di agire in autotutela nei confronti di una dia o una scia, anche risalente nel tempo. La vicenda riguarda una Dia presentata nel 2010 (integrata nel 2012 e nel 2013) per la demoricostruzione di un deposito, con ampliamento volumetrico ai sensi del Piano casa Puglia. Nel 2013 (subito dopo l'ultima integrazione della Dia presentata dal promotore) l'Ente locale ha comunicato l'avvio del ritiro in autotutela della Dia n.53/2010, poi perfezionato con il provvedimento emanato nel novembre del 2015.
L'ente locale si mosso su impulso di un esposto presentato dai confinanti. Dalle verifiche è emersa la non coincidenza tra quanto indicato nella Dia dal promotore e la realtà. Tale difformità è emersa solo dai documenti in quanto il manufatto originario era già stato demolito. In sintesi - in base alla ricostruzione che si legge nella sentenza n.6387/2023 di Palazzo Spada e nella precedente pronuncia del Tar Puglia - il promotore ha rappresentato l'esistenza di un manufatto originario di maggiori dimensioni rispetto alla realtà, per lucrare un maggior incremento volumetrico. I riscontri sui dati catastali e su una ricca documentazione fotografica (anche aerea) hanno fatto concludere all'ente locale la falsa rappresentazione della realtà da parte del promotore, «sia con riguardo alla datazione del manufatto (a data antecedente al 1942), che con riguardo alla sua consistenza plano-volumetrica».
Il ricorso del privato viene accolto dal Tar Puglia. I giudici si focalizzano sulla mancata tempestività da parte dell'ente locale, che si è appunto mosso solo nel 2013 e disponendo l'annullamento nel 2015, cioè a cinque anni di stanza dalla presentazione della Dia. In sostanza, ritengono di trovarsi nel caso di una ingiustificata inerzia della Pa. Secondo il Tar Puglia, infatti, il superamento del termine «tassativo» di 30 giorni per le verifiche da parte dell'Ente, rende «un titolo abilitativo valido ed efficace, che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l'esercizio del potere di autotutela decisoria. Pertanto, deve considerarsi illegittima l'adozione, da parte di un'amministrazione comunale, di un provvedimento repressivo-inibitorio della d.i.a. (già consolidatasi) oltre il termine perentorio di trenta giorni dalla presentazione della medesima d.i.a. e senza le garanzie e i presupposti previsti dall'ordinamento per l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio».
Ancora: «L'asserita difformità tra la consistenza planovolumetrica del deposito come dichiarata e come esistente prima della demolizione - si legge nella sentenza del Tar Puglia - avrebbe dovuto e potuto essere verificata dal Comune prima dello spirare dei trenta giorni dalla presentazione della d.i.a., essendo in suo possesso la relazione del tecnico di parte (corredata da allegati grafici e planimetria catastale) ed essendo all'epoca ancora esistente il deposito, poi demolito per effetto dell'intervento. Il decorso di un sì considerevole lasso temporale non trova dunque alcuna giustificazione».
Il quadro normativo, tuttavia, come si spiega nella pronuncia del Consiglio di Stato, è più complesso e dinamico, essendo intervenute modifiche normative in materia. Secondo i giudici della Quarta Sezione, all'ente locale non è imputabile alcun ritardo perché si è attivato subito dopo l'esposto dei denuncianti, cioè dalla "scoperta dei fatti", che è appunto il momento da prendere a riferimento per valutare la tempestività della Pa. Ma in ogni caso, l'Ente conservava la possibilità di intervenire in autotutela, in determinati casi: e «tra i casi in cui all'amministrazione era sempre concesso di intervenire (anche oltre il decorso del termine di 60 o 30 gg stabilito per l'esercizio dei poteri inibitori), vi era sicuramente inclusa l'ipotesi di falsa attestazione dei requisiti per la presentazione della d.i.a. o della s.c.i.a».
Ed è appunto questa la fattispecie che consente ai giudici di Palazzo Spada di ribaltare la sentenza del Tar, accogliendo l'appello dell'ente locale. «La Pa - si afferma - ben può desumere da elementi di fatto l'erroneità, o comunque la non veridicità, delle dichiarazioni sulla base delle quali l'interessato ha ottenuto un titolo edilizio e, di conseguenza, annullare in autotutela il predetto titolo; né l'esercizio del potere di autotutela può essere paralizzato dalla mancanza di un giudicato penale, rilevante solo in caso di dichiarazioni sostitutive o atti di notorietà mendaci o falsi».
Pienamente confermato il principio secondo il quale «quando un titolo abilitativo sia stato ottenuto dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà sia consentito all'amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela, ritirando l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa». Peraltro, fanno notare i giudici, la dia in questione e consentiva di lucrare gli effetti derogatori del Piano Casa Puglia. Tale «natura eccezionale della normativa regionale giustifica, in sede applicativa, un particolare rigore da parte della amministrazione comunale nella verifica dei presupposti per l'attuazione degli interventi straordinari di demolizione e ricostruzione previsti» dalla norma speciale varata nel 2009.