Il CommentoAmministratori

Comuni virtuosi e paradossi delle leggi

di Roberto Tasca (*)

Guardando i recenti dati della Banca d’Italia sull’andamento del debito pubblico 2020 ce ne è uno che deve allarmare ogni amministratore locale: mentre il debito delle Amministrazioni centrali è aumentato di 160,1 miliardi, raggiungendo quota 2.484,9 miliardi, quello delle Amministrazioni Locali è diminuito anche nel 2020 di 1,2 miliardi, passando da 85,4 a 84,2 miliardi. Se torniamo al 2010, il debito delle Amministrazioni Locali era di 114,2 miliardi, mentre il debito delle Amministrazioni Centrali era pari a 1.805,8 miliardi. In un decennio il rapporto tra debito locale e debito centrale è passato dal 6,4% al 3,4 per cento. Il virtuosismo degli amministratori locali è stato evidente.

I dati Bankitalia testimoniano anche una specifica scelta politica nella gestione del debito e della spesa pubblica: la centralizzazione di entrambe, con una progressiva limitazione delle facoltà di movimento dei Comuni. Infatti, mentre questi ultimi sono obbligati per legge al pareggio di bilancio, lo Stato centrale può farne a meno, continuando ad indebitarsi. Contemporaneamente, mentre gli enti sono obbligati a rimborsare annualmente la propria quota capitale in scadenza, lo Stato centrale può rifinanziarla con nuove emissioni. Tutto ciò sarebbe logico e ordinato se sussistessero due condizioni: lo Stato integra progressivamente i propri trasferimenti agli enti locali, mantenendo puntualmente controllata la loro capacità di spesa, o, in alternativa, ridefinisce ex-lege il perimetro all’interno del quale devono operare, obbligandoli ad abbandonare quelle attività che non rientrano nelle funzioni delegate, previste per i Comuni dalla legge 7 agosto 2012 n. 135. Scegliendo questa seconda via, lo Stato dovrebbe però assumersi con chiarezza la propria “responsabilità politica”, non lasciando la stessa in capo agli amministratori locali. Così però non accade.

Faccio il caso del Comune di Milano. Con un attivo patrimoniale del valore non inferiore a 6 miliardi di euro, l’entità del debito in essere è oggi pari a 3,5 miliardi di euro, essendosi ridotto di 500 milioni dal 2016 grazie al rimborso a carico delle entrate correnti. La solidità patrimoniale del Comune è provata dalla consistenza del suo attivo e testimonianza che “il debito buono” genera un ritorno importante per la sua collettività in termini di capacità di finanziare i servizi offerti. Ma, sebbene si sia fatto “debito buono” il Comune, applicando gli attuali principi contabili dovrà continuare a rimborsare il suo debito fino all’estinzione, essendo nel frattempo “obbligato” a garantire la gamma dei servizi destinati alla propria collettività nel tempo, salvo pagare un prezzo politico altissimo nel caso della loro interruzione. Terminato il rimborso del proprio debito, entro i prossimi 20 anni, il Comune di Milano si configurerà come una holding finanziaria, con un attivo di 6 miliardi finanziato integralmente dal proprio patrimonio. Un paradosso per un ente locale.

Ebbene, seppur di fronte ad una situazione solida, che potrebbe consentire di rinegoziare la quantità di debito in scadenza invece di rimborsarlo, magari anche a condizioni più favorevoli per il livello dei tassi di mercato, il Comune di Milano è destinato a ridurre progressivamente la propria capacità di spesa. In alternativa, gli amministratori locali che verranno dopo le prossime elezioni, non importa se di destra o di sinistra, dovranno avviare la vendita di pezzi del proprio attivo, che rappresenta invece un ottimo investimento, assumendosi direttamente la “responsabilità politica” di sottrarre ai propri cittadini “investimenti di qualità” e riducendo in corrispondenza “debito buono”. Non c’è che dire: un vero controsenso logico, che qualunque amministratore responsabile tenderà ad allontanare fino al limite del possibile. Questo quadro si accentua nel momento in cui appare Covid-19. Per rimborsare il debito il Comune, sebbene richiesto a gran voce dai suoi cittadini e dalle sue imprese, non può intervenire come dovrebbe a sostegno di quelle realtà che lo richiedono e che in fase espansiva hanno guidato lo sviluppo della città e del Paese. Deve farlo rispettando il pareggio di bilancio, quindi continuando a rimborsare debito e sottraendo risorse che in questo momento dovrebbero andare al territorio.

Se davvero si ritiene che fare “debito buono” sia un agire corretto, è arrivato il momento di sottoporre a seria riflessione questa dinamica. Per fare ciò basterebbe rivedere principi contabili rigidi e obsoleti, che limitano l’agire dei comuni virtuosi, assumendosi l’onere politico di discriminare anche rispetto al passato chi ha fatto “debito buono” e chi no, con una diversa elasticità nelle politiche di gestione, che non devono fare nuovo debito, ma più realisticamente poter rinegoziare quello in scadenza.

Ai Comuni con una minor solidità patrimoniale, obbligati ad applicare gli attuali principi contabili, lo Stato potrebbe offrire semplici opportunità per rifinanziare il debito in essere a tassi di mercato prossimi allo zero, mentre ancora alcuni Comuni pagano anche il 4% di tasso annuo. Le dichiarazioni sono importanti. La credibilità viene dall’azione conseguente. L’attendiamo.