Personale

Infarto da superlavoro, al dipendente basta dimostrare che l'attività si è protratta oltre la normale soglia di tollerabilità

Sul lavoratore ricade l'onere di provare l'esistenza del danno e il nesso con la nocività dell'ambiente

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di Pietro Alessio Palumbo

Il dipendente che subisce un infarto a causa di anni di superlavoro dovuto al cronico sottodimensionamento dell'organico dell'ente ha diritto a essere risarcito. La Corte di cassazione (ordinanza n. 6008/2023) ha considerato errato pretendere l'indicazione da parte del lavoratore – nella vicenda un dirigente - delle specifiche e determinate norme di sicurezza violate dall'ente: è idonea e sufficiente a dimostrare la nocività dell'ambiente di lavoro la mera dimostrazione dello svolgimento prolungato di prestazioni eccedenti un normale e tollerabile orario lavorativo ovvero modalità improprie per ritmi e quantità umanamente insostenibili.

Incombe sul dipendente che lamenti di avere subito a causa dell'attività lavorativa un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza del danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro e il nesso tra l'uno e l'altro elemento; mentre grava sul datore di lavoro l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno ossia di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dello stesso.

Al riguardo la disciplina generale sulla tutela delle condizioni di lavoro si qualifica alla stregua di normativa di chiusura del sistema antinfortunistico, estensibile a situazioni ed ipotesi non espressamente considerate e valutate dal legislatore. Si impone al datore di lavoro l'obbligo di tutelare l'integrità fisiopsichica dei dipendenti con l'adozione – e il mantenimento perfettamente funzionale – di tutte le misure di tipo igienicosanitario o antinfortunistico, idonee secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori da danni e lesioni nell'ambiente di lavoro. Tutto ciò anche in relazione ad eventi che non sono coperti specificamente dalla normativa antinfortunistica; giustificandosi l'interpretazione estensiva della richiamata normativa sia in base al rilievo costituzionale del diritto alla salute, sia in base al principio di correttezza e buona fede cui deve essere improntato anche lo svolgimento del rapporto di lavoro pubblico.

A giudizio della Suprema Corte da ciò deriva che nella vicenda la Corte d'appello ha commesso uno sbaglio nel rigettare la richiesta di risarcimento dei danni conseguenti all'infarto del dirigente sulla base dell'assunto per cui non avrebbe fornito sufficienti prove della sussistenza delle omissioni datoriali nella predisposizione di misure di sicurezza necessarie ad evitare il danno; ed in particolare della violazione di specifiche norme di sicurezza. Secondo la Suprema Corte è invece sufficiente che – come nella vicenda - il lavoratore dimostri con dati oggettivi di essere stato sottoposto per molti anni a superlavoro, ossia a turni ed orari particolarmente intensi e prolungati e ben al di sopra della normalità; mentre spetta al datore dimostrare il contrario ossia che i carichi di lavoro sono stati normali, congrui e sopportabili; non potendosi imporre al lavoratore l'individuazione delle puntuali norme prevenzionistiche trasgredite dall'ente.

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